In principio, a quanto pare, ci fu del succo d'uva fermentato, chissà come, che
i nostri lontanissimi avi trovarono gradevole da bere tanto da imparare a
trasformarlo in bevanda fondante di innumerevoli culture. Non è dato sapere
come l'uomo sia riuscito esattamente a domare la fermentazione e i fenomeni
biologici e chimici che portano al vino – o all'aceto – quello che è certo
la storia ci ha consegnato reperti significativi su come e quanto questa
bevanda sia stata importante per l'uomo. Difficile immaginare come fossero quei
vini primitivi, si può comunque facilmente pensare che il risultato era
certamente lontano, probabilmente lontanissimo, dal nostro concetto di vino e
di gusto. Facile pensare, anche leggendo le cronache di tempi remoti, che i
vini prodotti agli albori della civiltà fossero piuttosto robusti,
probabilmente densi e dolciastri, più o meno affetti da spunto, cioè
tendenti all'aceto. Basti pensare, per esempio, all'usanza greca di diluire il
vino con l'acqua – anche di mare, cioè salata – prima di servirlo durante i
simposi. Una pratica imposta, forse, anche dalla necessità di rendere più
gradevole i vini di quei tempi oltre che per ragioni rituali.
A tale proposito, mi torna volentieri in mente una bevanda un tempo molto
diffusa in Umbria – e in tutto il centro Italia – capace di regalare conforto
e ristoro ai contadini durante il duro e afoso lavoro nei campi:
l'acetello. Si tratta semplicemente di acqua e aceto – una piccola
parte – andava rigorosamente consumato fresco e che ricorda inequivocabilmente
la posca degli antichi Romani, figlia – appunto – dell'usanza di
miscelare il vino con l'acqua. Bevanda decisamente dissetante, era anche il
rimedio delle nostre nonne per dare sollievo al caldo estivo agli
scalmanati e vivaci nipotini, compreso il sottoscritto. Oggi,
molto probabilmente, una bevanda povera e semplice come l'acetello, non
trova il consenso del gusto moderno, esattamente come i vini del passato.
Tuttavia, ammetto che, soprattutto in estate, difficilmente trovo bevande più
dissetanti e rinfrescanti dell'acetello, non da meno, del semplice vino
– bianco o rosso, non fa differenza – diluito con acqua, preferibilmente
gasata.
Un fattore che da sempre caratterizza il vino – nel passato, presente e
certamente futuro – è il commercio. Notizie sulla vendita e lo scambio di vino
ci giungono infatti sino dai tempi remoti. Chiunque abbia scritto di vino in
passato, inevitabilmente ha sottolineato anche l'aspetto commerciale e quanto
fosse importante per le civiltà che ci hanno preceduto. Fin troppo facile
asserire la commercializzazione del vino è il fondamento primario della sua
produzione. Chi produce vino sostiene innegabilmente dei costi, sicuramente
animato da sincera passione e dedizione, il suo fine è chiaramente quello di
trarre profitto dalla sua impresa. Possiamo considerare il vino in termini
romantici, tradizionali, culturali ed emozionali, ma è evidentemente legittimo
che chi lo produce lo faccia anche per trarre un profitto economico. Il
commercio e il profitto – innegabilmente – sono determinati anche dalle mode
del vino che, nel corso degli anni, nascono, crescono e muoiono.
A tale proposito, si può ricordare il fenomeno dei bianchi che
imperversava in Italia circa venti anni fa, una moda che ha determinato
un aumento notevole delle vendite di questo stile di vino a discapito dei
rossi. Qualunque cantina – a quei tempi – era praticamente obbligata a
produrre almeno un vino bianco se desiderava mantenere quote di mercato.
Nelle tavole dei ristoranti e pizzerie troneggiava sempre e inevitabilmente
una bottiglia di vino bianco, spesso prodotto con Pinot Grigio. Quando questa
moda passò, ci fu il ritorno netto e inarrestabile dei vini rossi, spesso con
fortissima impronta di legno dovuta al passaggio in barrique, magia capace di
trasformare qualunque vino, soprattutto quelli mediocri, in suadente nettare.
Quei vini si definivano barricati – anche orgogliosamente sottolineato
in etichetta a garanzia di qualità superiore, molto presunta, in
verità – vini che sembravano appena usciti dalla falegnameria più che dalla
cantina.
Oggi si rileva un cambiamento di tendenza decisamente drastico rispetto a quei
tempi, con cantine che – per seguire le mode del momento, così da assicurarsi
il legittimo profitto del loro lavoro – si adeguano ai voleri di mode più o
meno condivisibili. Biologico, biodinamico, naturale, artigianale, senza
solfiti aggiunti, con lieviti indigeni, sbarazzino, giovane,
rispettoso dell'ambiente, immediato, semplice e tutto quello
che volete basta che lo comperate. Da un punto di vista commerciale, la cosa
è comprensibile: le mode, oltre a offrire un'opportunità di profitto, sono
anche un modo per diversificare la produzione, quindi soddisfare un numero
maggiore di clienti. A mio avviso però, tutte queste mode non fanno altro che
determinare un fenomeno deleterio per la qualità e la dignità del vino:
l'omologazione. La tendenza a soddisfare une certa richiesta, soprattutto
dominante, porta inevitabilmente all'omologazione di un prodotto, tanto da
farlo assomigliare – proprio per motivi commerciali – a quelli di
maggiore successo. Tutti simili, tutti uguali, spesso banali.
Sono anni che rilevo infatti una noiosa omologazione nel vino, qualcosa
che è puntualmente rilevabile in ogni stile o filosofia enologica. I
vini appartenenti a un certo stile o scuola di pensiero tendono
inevitabilmente a somigliarsi in modo imbarazzante, anche – e forse
soprattutto – quando l'uomo è convinto di lasciare fare alla natura.
Negli ultimi tempi, inoltre, stanno diventando sempre più diffusi certi vini
semplici e immediati, esplicitamente pensati per i giovani, cioè
a quelli che saranno uomini in futuro. Vini che si dovrebbero consumare in
momenti informali e spensierati, vini volutamente banali da un punto di
vista organolettico, spesso senza carattere o personalità. Questo potrebbe fare
pensare che i giovani, quando consumano vino, non devono curarsi di quello che
hanno nel calice: l'importante è avere qualcosa da bere distrattamente e
per puro divertimento. Easy, come si dice adesso nella dilagante
pochezza da angloitalioti che fa tanto impegnato e al passo con i
tempi. Semplice, immediato e senza anima, un vino che non regala emozioni,
che si dimentica ancor prima di versarlo nel calice, che si confonde in mezzo
al niente. Ma se è un vino destinato ai giovani, quindi – in teoria – un
prodotto che dovrebbe avere anche un ruolo formativo ed educativo, è questo il
futuro che si intende costruire per il vino e solo per assecondare la
superficialità di una moda?
Antonello Biancalana
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