Mi capita molto spesso di soffermarmi su come il mondo del vino sia cambiato nel
corso degli ultimi venti anni, in certi casi, molto in fretta. Č inevitabile non
riflettere su come certe mode siano nate, cresciute ed esaltate all'estremo,
per poi iniziare il proprio declino, quindi rinnegate, non da meno, considerate
come fenomeni che è bene tenere nascosti, anche quando fanno parte del processo
enologico utilizzato. Questi comportamenti si verificano praticamente in
ogni paese vitivinicolo del mondo, tuttavia, in Italia mi pare essere un
atteggiamento ricorrente e che cambia con le mode, anzi, opportunità, del
momento. All'apparire di una nuova moda o tendenza enologica, penso sempre si
tratti inevitabilmente di un fenomeno in attesa di cadere nell'oblio con tanto di
feroce osteggiamento. Quando questo accade – cioè il verificarsi della fine più
o meno ingloriosa – mi viene in mente sempre lo stesso vecchio adagio latino:
sic transit gloria mundi.
Uno di questi fenomeni è innegabilmente la barrique. Vi ricordate quando,
negli anni 1990, bastava questa magica parola per vendere un vino, anche di
dubbia qualità? Molte bottiglie sfoggiavano, in bella vista nelle etichette,
perfino l'abominevole neologismo barriccato – o barricato – a
sottolineare che quel divin nettare prometteva emozioni paradisiache per
il fatto di essere stato baciato dalla barrique. Composizione delle uve? Non era
importante: è barriccato, tutto il resto ininfluente e insignificante.
Ogni cantina, se voleva accedere al paradiso enologico, doveva sfoggiare, sia in
cantina sia nelle etichette, le barrique. A quei tempi, visitando le cantine di
certi produttori, alla vista delle magiche botticelle di stile bordolese, seguiva
l'annuncio solenne del numero di barrique possedute. In certe cantine, poi, la
barrique era l'unico tipo di botte presente. Qualsiasi contenitore di legno con
un volume superiore a 225 litri era stato sacrificato in favore della salvifica
barrique.
C'era inoltre una sorta di gara nello sfoggiare il numero di mesi trascorsi dal
vino all'interno della barrique, tanto che – in molti casi – il povero vino
soccombeva sotto il peso di tanto legno che ne cancellava identità e qualità.
Però era barriccato. Anzi, in certi casi, il produttore stesso – durante
l'assaggio dei suoi vini – trionfalmente e con non poco orgoglio sottolineava il
profumo e il sapore di barrique dei suoi vini. Era un pregio, la prova
inconfutabile della più alta qualità. Una sorta di competizione che,
inevitabilmente, portò all'esasperazione dell'omologazione organolettica poiché,
in molti casi, il vino era pressoché indistinguibile dagli aromi ceduti dalla
barrique. Tutti uguali, tutti orgogliosamente barriccati con il nobile e
ingombrante afrore di rovere. Sembrava non esserci tregua alla corsa della
barrique e i produttori, per non essere da meno di altri, versavano allegramente
i più disparati e malcapitati vini nelle piccole botti bordolesi confidando
nell'agognato miracolo enologico.
Fu così che nelle barrique finirono anche una quantità enorme di uve e vini esili
e sottili, totalmente schiacciati dal peso e dalla personalità del rovere nuovo e
ben tostato, con il risultato di produrre un infuso alcolico al sapore di legno e
che ben presto furono battezzati come vini del falegname. All'inizio
– ammettiamolo – questi vini erano anche divertenti da assaggiare,
nonostante l'obbrobrio enologico, ma ben presto finirono per annoiare ed
esasperare chiunque, produttori compresi. Ricordo, a quei tempi, ogni volta mi
capitava di assaggiare un vino fortemente marcato da quello che la barrique aveva
copiosamente ceduto, mi veniva sempre e puntualmente in mente la celebre
considerazione di Émile Peynaud, il grande enologo francese, fra i più influenti
e importanti del secolo scorso, che ci ha lasciato – non da meno – una ricca e
importante bibliografia enologica. Il grande enologo francese, fra le tante cose
dette a proposito dell'uso del legno in enologia, sottolineava che «il migliore
vino passato in legno è quello dove il legno non si sente». Disse inoltre che «il
legno andava usato nei vini come si usano le erbe aromatiche in cucina, facendo
risaltare meglio gli altri aromi».
Dopo queste considerazioni di Émile Peynaud, nella mia mente affiorava
puntualmente anche un altro celebre detto dell'enologo francese: «Siete voi
(consumatori) che in un certo senso fate la qualità. Se ci sono vini cattivi è
proprio perché ci sono dei cattivi bevitori. Il gusto è conforme alla rozzezza
dell'intelletto: ognuno beve il vino che merita». Evidentemente, a quei tempi, il
gusto dei bevitori di vino – buoni o cattivi – apprezzava oltremodo il gusto
del legno. Se piace e si vende, ovviamente, si produce, con buona pace di Émile
Peynaud e dei suoi insegnamenti. La moda dei vini del falegname – così
scherzosamente si chiamavano a quei tempi i vini al gusto di legno – riguardò
non solo l'Italia, ma anche altri paesi vitivinicoli del mondo, come Stati Uniti
d'America, Australia, Cile e Spagna. In certi casi, non si salvò nemmeno la
Francia – che è patria della Barrique – e accadeva di ritrovarsi nel calice
qualche vino d'oltralpe inopinatamente massacrato dalla barrique.
Questo fenomeno, come dicevo, ha progressivamente portato all'esasperazione
organolettica dei vini, tanto che dall'entusiasmo si passò progressivamente allo
sdegnato rifiuto. Già all'inizio degli anni 2000 la moda della barrique si
avviava verso il viale del tramonto così come l'orrendo termine barriccato
eliminato dalle etichette. La barrique, accusata di essere il primario colpevole
dell'omologazione sensoriale dei vini, doveva, in qualche modo, scomparire
dall'immaginario dei consumatori. Ma non in quello dei produttori che, nonostante
l'infame accusa di omologazione, hanno continuato – e continuano – a usarla.
Certo, non più come in passato, probabilmente si è finalmente compreso il reale
ruolo della barrique, che di certo non è quello di alterare oscenamente le
caratteristiche sensoriali del vino. I produttori, oggi, continuano a usare la
barrique ma, in molti casi, hanno perfino paura di ammetterlo, tanto che, spesso,
evitano perfino di citarla nelle caratteristiche produttive di un vino.
Per non disturbare la serenità degli appassionati che, nel frattempo, hanno
maturato una repulsione e avversione da barrique, convinti ancora che si tratti
del male assoluto, molti produttori preferiscono chiamarla con nomi più
accettabile. Nelle retro etichette dei vini e nelle relative schede di
produzione, è tutto un fiorire, spesso anche fantasioso, non da meno, fuorviante,
di termini alternativi che alludono alla barrique senza mai espressamente farne
menzione. Legno piccolo, botte piccola, carati di rovere, fusti piccoli,
caratello, rovere piccolo e chi più ne ha, più ne metta. Nel caso di carato e,
peggio ancora, di caratello, il termine risulta essere palesemente inappropriato
e fuorviante, sia per il volume sia per l'utilizzo rispetto alla barrique. In
ogni caso, sempre meglio che citare la temuta botte bordolese da 225 litri e
suscitare lo sdegno dei puristi del vino che nei loro calici sognano
solamente nettari incontaminati e veri, in accordo alla più rigorosa e
ortodossa delle tradizioni.
Mi viene sempre da sorridere a leggere questi acrobatici tentativi di
indorare la pillola, evitando la parola barrique ma alludendo direttamente
a essa. Un po' come accade nelle etichette di certi preparati alimentari nei
quali è presente il glutammato monosodico – entrato da tempo nella lista nera
dei veri intenditori del buon mangiare – e sono tutti contenti e rassicurati
quando non lo leggono nelle etichette ma trovano, per esempio, estratto di
lievito. Felici e rassicurati, si affrettano a festeggiare con una buona scaglia
di formaggio grana stagionato, nel quale il glutammato monosodico è notoriamente
e naturalmente contenuto e non aggiunto. Credo sia superfluo ricordare che la
barrique – in sé – non ha colpa alcuna, piuttosto la colpa ricade nella
responsabilità di chi la usava, o continua a usarla, in modo inappropriato o
eccessivo. La barrique non è né buona né cattiva: è semplicemente uno strumento
enologico, aggiungerei, molto importante e utile, e quando usato in modo
opportuno e corretto, risulta – per certi vini – fondamentale e determinante.
Anche quando la si chiama affettuosamente legno piccolo, carato di
rovere o botte piccola – come si dice in Italia – se non è zuppa, è
pan bagnato.
Antonello Biancalana
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