Quando iniziai a lavorare nel mondo del vino - era il 1997 - le Denominazioni
d'Origine Controllata e Garantita (DOCG) d'Italia erano 18. Era facile
ricordarsele: in fin dei conti, imparare a memoria 18 nomi di aree o vini era
impresa semplicissima. Oggi, in un giorno gelido e nevoso di febbraio 2012, se
ne contano 74. In soli 15 anni, l'olimpo dell'enologia di alta qualità
d'Italia ha accolto ben 56 nuovi dei graditi a Bacco. Con l'eccezione di
Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Liguria, Molise e Calabria, ogni regione
d'Italia può sfoggiare con orgoglio almeno un vino DOCG; Toscana, Veneto e
Piemonte possono addirittura contarne 11, 14 e 16 rispettivamente. Per non
parlare dei vini a Denominazione d'Origine Controllata (DOC) che - ad oggi -
hanno raggiunto quota 344. A questi si aggiungono i vini che occupano il gradino
più basso del sistema di qualità italiano - i cosiddetti vini a Indicazione
Geografica Tipica (IGT) - che ad oggi se ne contano 120.
Rapido calcolo: i vini italiani appartenenti a una denominazione legalmente
riconosciuta ammonta a 538. Questi dati possono essere facilmente reperiti dal
sito del Ministero delle Politiche Alimentari, Agricole e Forestali - fonte
ufficiale del nostro Paese - nel quale l'elenco è aggiornato fino al mese di
Novembre 2011, integrato da notizie successive a questa data. Si pensi, ad
esempio, che sei anni fa - nel 2006 - il totale dei vini appartenenti alle
denominazioni in Italia erano circa 350. L'incremento nel corso degli anni è,
per così dire, strepitoso. La qualità dei vini italiani è certamente aumentata
nel corso di 15 anni - non c'è dubbio - ed è normale, si potrebbe anche dire
auspicabile, che questo aumento sia certificato e riconosciuto con apposite
denominazioni. L'Italia è un Paese con una lunghissima e innegabile storia,
cultura e tradizione enologica, e ogni regione, ogni provincia, ogni comune
vanta innumerevoli vini, spesso sbandierati come storici e tradizionali, spesso
costruiti sulla scia di una semplice speculazione.
Sostenere, per esempio, la lunga tradizione e storia di un vino italiano
prodotto con Merlot, Cabernet Sauvignon o Chardonnay, francamente, lascia
perplessi oltre che basiti. In fin dei conti, una denominazione non certifica la
tradizione e la cultura di un vino o di un luogo, in linea teorica, ne certifica
l'origine. Garantisce l'area di produzione di un vino e che questo sia prodotto
seguendo le norme stabilite, per legge, dalla denominazione stessa, incluse uve,
pratiche di vinificazione e maturazione. L'unica eccezione è relativa alle
denominazioni che si fregiano della menzione classico, usato per indicare
una zona nella quale un vino è storicamente prodotto. Vedere nei vini
classici l'intrusione di uve internazionali, lascia comunque perplessi, sia
sulla storia, sia sulla tipicità. Casi come questi, inoltre, fanno sorgere dei
leciti dubbi sulla reale funzione delle denominazioni e sul motivo per il quale,
in Italia, ce ne siano così tante.
Molti sostengono che le denominazioni sono essenziali per la tutela di un
prodotto, consentono la costruzione di una migliore identità, offrono una
migliore garanzia commerciale, diminuiscono il rischio di deplorevoli
contraffazioni. Queste posizioni - a mio avviso - sono tutte opinabili. Un
numero così elevato di denominazioni contribuisce in modo significativo a creare
confusione nei consumatori, i quali, spesso, non considerano affatto la
denominazione e acquistano secondo altri criteri. Spesso, molto spesso, ignorano
perfino l'esistenza di molte denominazioni. Così tante denominazioni confondono
l'offerta dell'Italia enologica anche e soprattutto all'estero. Se in Italia
sono pochi a ricordare il nome di qualche decina di denominazioni del nostro
Paese, all'estero a malapena conoscono il nome di un paio di DOCG e della loro
esistenza. Se poi consideriamo la comunicazione, proprio a causa dell'enorme
confusione provocata dalle legittime operazioni di promozione che ogni
denominazione promuove, il consumatore resta disorientato, sommerso da un
assordante rumore.
Dal punto di vista commerciale, è incomprensibile il motivo per il quale spesso
certi vini DOC, e talvolta anche DOCG, siano venduti per pochi euro, quando è
evidente che per quella cifra a malapena si potrebbero coprire i costi di
produzione e distribuzione. Non sempre il prezzo fa la qualità, ovviamente: un
vino costoso non sempre è migliore di un vino economico. La contraffazione,
infine, non si evita certamente con una denominazione: a testimoniarlo ci sono
i tanti vini prodotti con il palese intento di sfruttare la scia del successo di
altri. Fatta la legge, trovato l'inganno. Eppure in Italia è una continua corsa
alla denominazione: tutti reclamano una denominazione, tutti si affannano per
raggiungere la DOCG, mettendo in campo tutto il potere politico a
disposizione così da raggiungere l'ambìto traguardo. I risultati di questa
corsa, purtroppo, sono evidenti agli occhi di tutti, per meglio dire, sui calici
di tutti. Una corsa che finisce - molto spesso - per fregiare vini deludenti,
deprimenti e scoraggianti dell'ambìta denominazione, vini che, nella migliore
delle ipotesi, dimostrano una modesta, modestissima, qualità.
Senza volere fare dei nomi in particolare, ci sono molti vini DOC, ma anche
DOCG, che una volta versati nel calice lasciano a dir poco perplessi sul loro
valore e sulla qualità che dovrebbero rappresentare - di fatto - la più alta
espressione dell'enologia italiana. Inoltre, differenze sconcertanti si possono
rilevare anche nell'ambito di vini appartenenti alla stessa denominazione, vini
che, in linea teorica, dovrebbero beneficiare delle medesime condizioni
ambientali ed enologiche. Eppure i risultati sono così diversi che a stento si
riesce a credere che si tratti dello stesso vino, espressione qualitativa del
medesimo territorio. Il produttore, nel bene e nel male, fa la sua parte, non
c'è dubbio. Queste considerazioni, presumo siano condivisibili alla luce dei
fatti: possibile che gli organi competenti che istituiscono e poi controllano le
denominazioni non se ne rendano conto? Possibile che non si riesca a capire
l'enorme danno che la frammentazione di centinaia di denominazioni produce
all'immagine enologica dell'Italia, non solo alla sua identità, ma anche alla
sua qualità? Temo proprio di no e, forse, non interessa nemmeno che si prenda
coscienza di questa situazione. A quanto pare, l'importante è avere una
denominazione: tutto il resto non conta. Nemmeno il vino.
Antonello Biancalana
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