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  Editoriale Numero 105, Marzo 2012   
Italia DOCItalia DOC  Sommario 
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Italia DOC


 Quando iniziai a lavorare nel mondo del vino - era il 1997 - le Denominazioni d'Origine Controllata e Garantita (DOCG) d'Italia erano 18. Era facile ricordarsele: in fin dei conti, imparare a memoria 18 nomi di aree o vini era impresa semplicissima. Oggi, in un giorno gelido e nevoso di febbraio 2012, se ne contano 74. In soli 15 anni, l'olimpo dell'enologia di alta qualità d'Italia ha accolto ben 56 nuovi dei graditi a Bacco. Con l'eccezione di Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Liguria, Molise e Calabria, ogni regione d'Italia può sfoggiare con orgoglio almeno un vino DOCG; Toscana, Veneto e Piemonte possono addirittura contarne 11, 14 e 16 rispettivamente. Per non parlare dei vini a Denominazione d'Origine Controllata (DOC) che - ad oggi - hanno raggiunto quota 344. A questi si aggiungono i vini che occupano il gradino più basso del sistema di qualità italiano - i cosiddetti vini a Indicazione Geografica Tipica (IGT) - che ad oggi se ne contano 120.


 

 Rapido calcolo: i vini italiani appartenenti a una denominazione legalmente riconosciuta ammonta a 538. Questi dati possono essere facilmente reperiti dal sito del Ministero delle Politiche Alimentari, Agricole e Forestali - fonte ufficiale del nostro Paese - nel quale l'elenco è aggiornato fino al mese di Novembre 2011, integrato da notizie successive a questa data. Si pensi, ad esempio, che sei anni fa - nel 2006 - il totale dei vini appartenenti alle denominazioni in Italia erano circa 350. L'incremento nel corso degli anni è, per così dire, strepitoso. La qualità dei vini italiani è certamente aumentata nel corso di 15 anni - non c'è dubbio - ed è normale, si potrebbe anche dire auspicabile, che questo aumento sia certificato e riconosciuto con apposite denominazioni. L'Italia è un Paese con una lunghissima e innegabile storia, cultura e tradizione enologica, e ogni regione, ogni provincia, ogni comune vanta innumerevoli vini, spesso sbandierati come storici e tradizionali, spesso costruiti sulla scia di una semplice speculazione.

 Sostenere, per esempio, la lunga tradizione e storia di un vino italiano prodotto con Merlot, Cabernet Sauvignon o Chardonnay, francamente, lascia perplessi oltre che basiti. In fin dei conti, una denominazione non certifica la tradizione e la cultura di un vino o di un luogo, in linea teorica, ne certifica l'origine. Garantisce l'area di produzione di un vino e che questo sia prodotto seguendo le norme stabilite, per legge, dalla denominazione stessa, incluse uve, pratiche di vinificazione e maturazione. L'unica eccezione è relativa alle denominazioni che si fregiano della menzione “classico”, usato per indicare una zona nella quale un vino è storicamente prodotto. Vedere nei vini “classici” l'intrusione di uve internazionali, lascia comunque perplessi, sia sulla storia, sia sulla tipicità. Casi come questi, inoltre, fanno sorgere dei leciti dubbi sulla reale funzione delle denominazioni e sul motivo per il quale, in Italia, ce ne siano così tante.

 Molti sostengono che le denominazioni sono essenziali per la tutela di un prodotto, consentono la costruzione di una migliore identità, offrono una migliore garanzia commerciale, diminuiscono il rischio di deplorevoli contraffazioni. Queste posizioni - a mio avviso - sono tutte opinabili. Un numero così elevato di denominazioni contribuisce in modo significativo a creare confusione nei consumatori, i quali, spesso, non considerano affatto la denominazione e acquistano secondo altri criteri. Spesso, molto spesso, ignorano perfino l'esistenza di molte denominazioni. Così tante denominazioni confondono l'offerta dell'Italia enologica anche e soprattutto all'estero. Se in Italia sono pochi a ricordare il nome di qualche decina di denominazioni del nostro Paese, all'estero a malapena conoscono il nome di un paio di DOCG e della loro esistenza. Se poi consideriamo la comunicazione, proprio a causa dell'enorme confusione provocata dalle legittime operazioni di promozione che ogni denominazione promuove, il consumatore resta disorientato, sommerso da un assordante “rumore”.

 Dal punto di vista commerciale, è incomprensibile il motivo per il quale spesso certi vini DOC, e talvolta anche DOCG, siano venduti per pochi euro, quando è evidente che per quella cifra a malapena si potrebbero coprire i costi di produzione e distribuzione. Non sempre il prezzo fa la qualità, ovviamente: un vino costoso non sempre è migliore di un vino economico. La contraffazione, infine, non si evita certamente con una denominazione: a testimoniarlo ci sono i tanti vini prodotti con il palese intento di sfruttare la scia del successo di altri. Fatta la legge, trovato l'inganno. Eppure in Italia è una continua corsa alla denominazione: tutti reclamano una denominazione, tutti si affannano per raggiungere la DOCG, mettendo in campo tutto il potere politico a disposizione così da raggiungere l'ambìto traguardo. I risultati di questa corsa, purtroppo, sono evidenti agli occhi di tutti, per meglio dire, sui calici di tutti. Una corsa che finisce - molto spesso - per fregiare vini deludenti, deprimenti e scoraggianti dell'ambìta denominazione, vini che, nella migliore delle ipotesi, dimostrano una modesta, modestissima, qualità.

 Senza volere fare dei nomi in particolare, ci sono molti vini DOC, ma anche DOCG, che una volta versati nel calice lasciano a dir poco perplessi sul loro valore e sulla qualità che dovrebbero rappresentare - di fatto - la più alta espressione dell'enologia italiana. Inoltre, differenze sconcertanti si possono rilevare anche nell'ambito di vini appartenenti alla stessa denominazione, vini che, in linea teorica, dovrebbero beneficiare delle medesime condizioni ambientali ed enologiche. Eppure i risultati sono così diversi che a stento si riesce a credere che si tratti dello stesso vino, espressione qualitativa del medesimo territorio. Il produttore, nel bene e nel male, fa la sua parte, non c'è dubbio. Queste considerazioni, presumo siano condivisibili alla luce dei fatti: possibile che gli organi competenti che istituiscono e poi controllano le denominazioni non se ne rendano conto? Possibile che non si riesca a capire l'enorme danno che la frammentazione di centinaia di denominazioni produce all'immagine enologica dell'Italia, non solo alla sua identità, ma anche alla sua qualità? Temo proprio di no e, forse, non interessa nemmeno che si prenda coscienza di questa situazione. A quanto pare, l'importante è avere una denominazione: tutto il resto non conta. Nemmeno il vino.

Antonello Biancalana






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