Nihil obstat quominus imprimatur. Questa celebre locuzione latina -
letteralmente: nulla osta a che si stampi - era certamente la più auspicata da
chiunque decidesse di scrivere un libro in tempi passati. Com'è noto, con questa
locuzione si otteneva la licenza ecclesiastica per stampare un libro o altra
pubblicazione; in mancanza di questa, la pubblicazione era destinata
all'inclusione nel temuto index librorum prohibitorum (indice dei libri
proibiti), elenco di libri considerati lesivi e disdicevoli per la morale e la
fede cattolica. La locuzione, che si stampava all'inizio o alla fine dei libri,
e che per semplicità si definiva imprimatur, forniva ai comuni
mortali la rassicurazione sulla lettura di quel libro, al riparo dal rischio di
commettere peccato e, soprattutto, dall'accusa di eresia o di altre infamanti
definizioni che avrebbero turbato la soggiogata e plagiata moralità della gente.
In altre parole, era un pietoso metodo per limitare la libertà di pensiero e
quindi stabilire un ordine sociale ad esclusivo vantaggio di chi esercitava il
potere.
Il termine imprimatur è generalmente usato, in senso lato, per indicare
il ricevimento dell'autorizzazione o approvazione a fare o appartenere a
qualcosa, insomma, un indiscutibile consenso ricevuto da un'alta autorità.
L'imprimatur, in senso lato, è qualcosa che affascina la gente: sapere
che c'è qualcuno, o qualcosa, che possa garantire un prodotto, una persona, un
pensiero o un'idea, rassicura dal fatto, e dalla fatica, di prendere una
posizione, senza comprendere e sentire - personalmente - la reale qualità.
Questo atteggiamento è utile e dannoso allo stesso tempo. Diviene utile quando
l'imprimatur è conferito onestamente da un organo o soggetto
realmente competente senza altri interessi se non la promozione della vera
qualità. Diviene dannoso quando invece è usato con il proposito di
imporre qualcosa, di dubbia qualità, ma con l'unico scopo di decretarne
il successo commerciale basandosi unicamente sulle etichette e non fatti
concreti. Un prodotto mediocre, forte comunque di un imprimatur, riceve
un notevole successo commerciale anche, e soprattutto, quando non lo merita
affatto.
Superfluo fare esempi pratici: il mercato è pieno di prodotti di questo tipo. E
anche la nostra società è piena di soggetti parimenti mediocri, se non penosi e
patetici, ma destinati al successo solo perché devono avere successo. Può il
vino essere un'eccezione? Certo che no. Il mondo del vino, per meglio dire, la
maggioranza dei soggetti che operano nella produzione del vino, si affannano da
sempre alla creazione di certificati, norme, regole,
marchi e denominazioni sempre con lo scopo di conferire un
imprimatur ai loro vini. Spesso - a quanto pare - questi soggetti si
adoperano maggiormente su questi aspetti, piuttosto che concentrarsi su un
presupposto fondamentale: la qualità non si ottiene con un certificato o una
denominazione, ma unicamente con il presupposto culturale e morale di chi
produce, a partire dalla vigna. Non ha senso - e non ha nessun riscontro pratico
- dire che un vino appartenente a una denominazione o a una specifica
religione enologica sia migliore di quelli al di fuori di questo
privilegio burocratico.
Non mi piacciono le DOC e nemmeno le DOCG. Sia chiaro: non mi riferisco ai vini
che appartengono alle denominazioni, ma all'istituzione del concetto della
denominazione. Allo stesso modo, non mi piacciono i certificati e gli
imprimatur conferiti ai vini biologici, biodinamici, naturali e chi più
ne ha più ne metta. Non ha senso. Non possiamo nascondere il vino come
espressione culturale e competenza di un produttore - interprete della propria
visione enologica con il prezioso e fondamentale supporto dell'ambiente e della
Natura - mettendo invece in risalto il fatto che quel vino, quel produttore,
dispone di un certificato. Si potrebbe obiettare che le denominazioni e i
certificati sono utili a tutelare il vino da eventuali frodi e
contraffazioni, anche nell'interesse dei produttori, anche nell'interesse dei
consumatori. Che dire, quindi, delle imbarazzanti differenze che si riscontrano
troppo frequentemente nei vini appartenenti alla stessa denominazione o
certificazione? Vini mediocri e di discutibile pregio, considerati alla stregua
di altri vini di grande qualità e pregio, solo per il fatto di appartenere alla
stessa denominazione o vantare lo stesso certificato. E quei vini, quale
contributo apportano al prestigio e all'affidabilità della denominazione o della
certificazione?
Appartenere a una denominazione, ottenere un certificato, aderire a un movimento
o corrente di pensiero enologica, rappresenta - innegabilmente - una concreta
possibilità commerciale. Non da meno, esercitano un certo influsso e un certo
fascino sui consumatori: per molti l'imprimatur della denominazione o
l'appartenenza a una determinata certificazione o stile, è rassicurante.
Rassicurazioni che diventano poi abitudini difficili da cambiare, almeno fino a
quando non interviene una nuova moda, un nuovo imprimatur pronto a
offrire una nuova certezza nel calice, e tanto basta per essere convinti di
avere fatto la scelta giusta che altri hanno deciso, o meglio, imposto. Esiste
poi, e per fortuna, un crescente numero di appassionati di vino che, finalmente,
vanno oltre e prendono come unico riferimento quello che trovano nel calice,
restando indifferenti alle denominazioni, ai certificati, alle benedizioni
di enti e istituzioni. Si concentrano sulla capacità del produttore e sul modo
di raccontare il suo territorio e le sue uve. Per loro, meno male, se quel vino
è DOC, naturale, biologico, biodinamico o altro, poco importa - almeno nel
lecito della genuinità - e lasciano al calice la parola definitiva.
Ci sono produttori che da sempre fanno della qualità il loro personale
imprimatur, lontani dalle denominazioni, dai certificati e da
approvazioni burocratiche o istituzionali, dimostrando con i fatti il loro
talento e il loro concetto di vino e territorio. Molti di questi - la storia
enologica è piena di esempi - restano volutamente fuori dalle logiche delle
denominazioni e certificazioni proprio perché sarebbero lesive e svantaggiose
per il proprio marchio. Non hanno nessun interesse a classificare i loro
vini come biologici, biodinamici, naturali o in altro modo,
nonostante questi metodi appartengano al loro processo viticolturale e
produttivo. Non interessa loro mettere in risalto queste caratteristiche perché
quello che hanno è un fattore ben più alto e prezioso di qualunque altro
criterio enologico o viticolturale: la qualità e i fatti. Non hanno la necessità
di nascondere eventuali carenze con etichette o certificati, seguire nuove
religioni enologiche per farlo poi sapere al mondo. La qualità è un
presupposto culturale che appartiene alla serietà e alla passione del
produttore, oltre al suo talento di comprendere e interpretare al meglio un
territorio, rispettandolo e rispettando i propri consumatori. Qualcosa che
nessun imprimatur può garantire, ma è innegabile che certi
imprimatur siano efficaci nell'appagare l'illusione di quelli che
guardano solo l'etichetta e si accontentano dell'apparenza. «Siete voi
(consumatori) che in un certo senso fate la qualità. Se ci sono vini cattivi è
proprio perché ci sono dei cattivi bevitori. Il gusto è conforme alla rozzezza
dell'intelletto: ognuno beve il vino che merita» diceva Émile Peynaud. Sagge
parole.
Antonello Biancalana
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