L'Umbria è la regione dove sono nato. Per essere precisi, nelle vicinanze delle
mura medievali di Perugia, il capoluogo della regione. Normale, anzi,
inevitabile, che i primi vini dei quali ho memoria fossero umbri. Certo, non
erano vini come li possiamo immaginare oggi. A quei tempi il vino che arrivava
a tavola per accompagnare i pasti era, con molta probabilità, prodotto da
qualche parente – vicino o lontano che sia – oppure da qualche amico di
famiglia fidato. In ogni caso, si trattava di vino sfuso e che si andava
a prendere direttamente alla fonte e riempiendo corpulente damigiane. Seguiva
poi il rito, tutto familiare, che prevedeva il travaso della damigiana
in bottiglie, rigorosamente recuperate e riutilizzate dopo opportuno e
scrupoloso lavaggio. Chi non aveva amici o parenti dediti alla viticoltura, o
quanto meno all'enologia casalinga, riempiva le proprie damigiane o dal
contadino fidato oppure andando direttamente alla cantina sociale più
vicina.
I vini in bottiglia, cioè come li intendiamo oggi, arrivavano a tavola
solamente nelle occasioni speciali, in occasione delle ricorrenze o festività
principali dell'anno. Nella maggioranza dei casi, si trattava di spumante, cioè
quel tipo di vino che era praticamente impossibile reperire dall'amico o
parente di fiducia o dalla cantina sociale. A ripensare oggi a quei vini, fanno
un po' tenerezza per la qualità non certo impeccabile, soprattutto se
confrontati con quelli ai quali siamo abituati oggi. Con questo non intendo
dire che a quei tempi non si producessero vini di qualità: in realtà se ne
producevano eccome, tuttavia non erano ancora parte della cultura di massa del
vino e di certo la gente comune raramente li acquistava. Non solo per un
fatto puramente economico, ma – appunto – per un fatto culturale e
tradizionale, attribuendo al vino, per così dire, una dimensione familiare
o, al limite, di identità territoriale, intenso come qualcosa non molto
distante dal luogo nel quale si era nati o si viveva. Il vino era una questione
di casa, di famiglia, quindi fortemente identitario.
Per non parlare poi delle competizioni fra piccoli produttori
– nonni, zii, amici, contadini fidati – con lo scopo di affermare la qualità
indiscussa del frutto della propria vigna e cantina, spesso denigrando il vino
degli altri. Non erano infatti discussioni del tutto pacifiche e non si
risolvevano nemmeno con una bevuta fra amici, poiché il più delle volte si
rifiutava il vino altrui sostenendo la presenza di inenarrabili e gravissimi
difetti. A ripensare oggi a quei vini, in effetti, i difetti erano la
caratteristica dominante di tutti quanti, alcuni più, alcuni meno, ma non
brillavano certamente per qualità. Ovviamente a quei tempi non si conosceva
molto altro, quindi era difficile, anzi, improponibile, fare confronti. Non
solo, ma quando accadeva di bere vini in bottiglia – prodotti quindi da
aziende vitivinicole vere, comprese le cantine sociali – era difficile che si
ammettesse l'evidente qualità. Anzi, quella inusitata qualità – presunta o
reale – era vista con sdegnato sospetto, sicuramente frutto di chissà quale
abominevole adulterazione attraverso chissà quali, e mai precisati, ausili o
additivi chimici.
Nella maggioranza dei casi, quando mi capitava di assaggiare il vino di un
produttore casalingo, all'offerta del bicchiere seguiva sempre la
rassicurazione trionfante sul fatto che per fare quel vino non era stato
aggiunto nulla. Più che una dichiarazione di genuinità, sembrava piuttosto un
ammonimento verso tutti gli altri vini, senza distinzione alcuna, che
certamente erano fatti aggiungendo qualcosa. Cosa fosse in realtà, poi,
nessuno lo sapeva, tranne, in certi casi, ad allusioni all'eccessivo uso di
metabisolfito di potassio. Era fatto con qualcosa e tanto bastava a gettare
ombre e sospetti verso chiunque. Inutile fare domande: era una sentenza già
scritta a priori e pertanto insindacabile. Intendiamoci, questi sospetti a
volte erano lecitamente fondati e le cronache di quei tempi – purtroppo – ci
hanno raccontato di pratiche enologiche non proprio salutari, una su tutte,
il tristemente noto scandalo del vino al metanolo, orrenda vicenda per la
quale molti – troppi – hanno subito conseguenze spaventose e tragiche.
Difficili da dimenticare, per chi le ha vissute, le cronache di quei tempi.
Eppure un vino diverso esisteva. E ne sentivo parlare pure con enfasi
trionfale, almeno per me che – a quei tempi – leggevo avidamente i libri e
gli articoli del supremo Luigi Veronelli, pur non avendo opportunità di
verificare personalmente le sue incantevoli lodi e dissertazioni in tema
enoico. Lui, incrollabile sostenitore di vini schietti e genuini
– riconoscendo e onorando la fatica di chi coltivava personalmente la vigna –
accusava senza mezzi termini certe produzioni disinvolte di origine
prettamente industriale. Io leggevo, immaginavo, sognavo, ma continuavo a
confrontarmi con il solo vino che arrivava a tavola: quello dei nonni, zii,
parenti e amici fidati. Luigi Veronelli, poi, maestro di scrittura e di
raffinatissimo uso della lingua in ambito enologico, autore di leggendari
neologismi, ancora oggi vivi e dedicati al vino, era anche fine maestro di
intelligente provocazione. «Il peggior vino contadino è migliore del miglior
vino industriale», disse notoriamente a quei tempi, anche a sottolineare certi
vini di produzione discutibile.
Sono tempi oramai lontani – non c'è dubbio – e oggi il mondo del vino è così
lontano da quelle abitudini, praticamente stravolto da una rinascita e
rivoluzione capaci di cambiare tutto. Se a quei tempi parlare di qualità vera e
reale significava fare esplicito riferimento a una piccolissima percentuale di
produttori del Paese, oggi è vero l'esatto contrario. Il livello qualitativo è
notevolmente aumentato per tutti, c'è maggiore consapevolezza sia delle
pratiche e tecnologie enologiche, sia della volontà di perseguire un livello di
qualità elevatissima. Nonostante ci siano ancora oggi esempi di enologia e
bottiglie di discutibile pulizia e qualità, la maggioranza delle attività
vitivinicole italiane appartiene decisamente alle più alte vette dell'olimpo
enologico di qualità. Negli ultimi decenni, infatti, si è ridotta notevolmente
l'evidente distanza esistente fra le pochissime realtà produttive di reale
qualità del passato e tutte le altre che, o sono migliorate oppure si sono
aggiunte all'eccellenza enologica del nostro Paese.
Un traguardo – non c'è dubbio – del quale essere fieramente orgogliosi in
quanto italiani e che ci pone, indiscutibilmente, fra le pochissime grandezze
enologiche del mondo. Il vino italiano ha fatto molta strada e, se è vero che
c'era una volta il vino, è ancor più vero che il vino c'è ancora oggi.
E, in termini generali, è meravigliosamente, indiscutibilmente, magnificamente,
orgogliosamente migliore di quello di tempi passati e che, comunque sia, ci ha
permesso di arrivare fino a qui, nel bene e nel male. Perché – non c'è
dubbio – quando questo periodo incerto e nefasto sarà terminato, avremo
bisogno di qualità per continuare ad affermare il nostro vino nel mondo. E qui,
in Italia, la qualità c'è. Anzi, c'è sempre stata.
Antonello Biancalana
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