La concorrenza, quando si parla di mercato, quindi di denaro, è un argomento
molto sensibile per chiunque abbia un'impresa. Nei tempi di crisi economica,
come quelli che viviamo in questi anni, seppure segnati da timidi segnali di
ripresa, la concorrenza diventa spietata: si fa uso di ogni mezzo e di ogni
strategia per rimanere davanti agli altri. La comunicazione, per il
raggiungimento di questo obiettivo, è certamente determinante. Fare sapere agli
altri della propria esistenza, con il chiaro obiettivo di ottenere una posizione
dominante anche in quell'ambito, spesso fa la differenza. Una differenza che,
non va dimenticato, deve necessariamente essere supportata dai fatti. Fatti
concreti e reali, non supposti o millantati. Sarà anche che la pubblicità è
l'anima del commercio, ma alla fine - come si dice - le bugie hanno le gambe
corte.
In tempi di crisi, l'antico adagio mors tua, vita mea sembra trovare
maggiormente riscontro. Una filosofia di vita non sempre condivisa da tutti:
in tempi di crisi ci sono anche quelli che preferiscono adottare il più saggio
l'unione fa la forza. Nobile intento, anche se poi la sua efficacia e la
sua forza coincidono spesso con la tutela di un interesse, anche economico,
condiviso. E, si sa, gli interessi condivisi si sostengono fino a quando non
ledono quelli personali. Per esempio, siamo pronti a sostenere gli interessi
dell'Italia fino a quando questi coincidono con l'interesse della nostre
regioni, gli interessi della propria regione fino a quando coincidono con gli
interessi della propria città, e via a scendere, fino a quelli strettamente
personali. Sembra poco elegante dirlo, ma si sostengono gli interessi fino a
quando ci fanno comodo, brutto a dirsi e in altre parole, spesso è una questione
di opportunismo.
Siamo pronti a difendere il vino italiano, qualunque esso sia, quando si deve
contrastare il vino straniero, ma siamo altrettanto agguerriti a sostenere il
vino delle proprie regioni quando ci confrontiamo con quello delle altre
regioni, le proprie aree opposte alle altre. Insomma, è sempre bene non chiedere
all'oste com'è il suo vino: risponderà sempre che è il migliore. Sarà forse per
la crisi, o forse anche per la voglia di emergere nel mare magno del vino, che
negli ultimi anni si è assistito a un fiorire, pressoché incontrollato, di
denominazioni di ogni tipo, DOC e DOCG. Distribuite e riconosciute in ogni
luogo, tutti si sono riscoperti depositari dei massimi nettari enologici del
paese, paladini di tradizioni antiche, nemmeno a dirlo, migliori di tutte le
altre. Inoltre, tradizioni dimenticate per decenni, anzi, rinnegate e
volutamente dimenticate in favore del nuovo che avanzava, risorgono all'insegna
del riscoperto sentimento verso alla propria terra.
Quale migliore occasione per onorare queste antiche tradizioni se non con una
sontuosa Denominazione d'Origine Controllata e, ancor meglio, Garantita? A
sentire i promotori di molte denominazioni, vecchie e nuove, senza distinzione,
il proprio territorio è depositario di tradizioni e culture antichissime (e su
questo, proprio nulla da obiettare) ma se poi andiamo a leggere i disciplinari e
facciamo un giro nei vigneti, è tutto un gran rigoglio di Merlot, Cabernet
Sauvignon, Chardonnay e Sauvignon Blanc. E meno male che si parlava di
tradizione. Se consideriamo queste varietà, qualche dubbio sull'effettiva
volontà di mantenere la tradizione di quel luogo, ti viene eccome. Poi, se fai
notare che quelle varietà non hanno nulla in comune, né con il territorio, né
con la sua tradizione, la risposta è sempre la stessa: «quelle sono varietà
migliorative per le nostre uve tradizionali». Può anche sembrare brutto detto
così, ma è l'ammissione che quelle uve così tradizionali, hanno dimostrato, nel
tempo, di non avere mai prodotto del buon vino, o, più probabilmente, nessuno è
riuscito a capire come farne del buon vino.
In questi casi è meglio seguire la via più semplice, cioè quella che da i
risultati più concreti in termini commerciali. Alla gente piace la rotondità e
l'immediatezza del Merlot, allora il Merlot diventa, magicamente, l'uva di quel
territorio. Non so se si è capito, ma non ho una buona considerazione per le
denominazioni, soprattutto quando queste nascondono - e malamente - evidenti
propositi speculativi. La qualità non si crea con la legge, e le denominazioni,
come si sa, sono emanate da leggi. Nessuna legge può garantire la qualità se chi
deve seguire quella legge non ha nessun presupposto e cultura per produrre
qualità. Come dire che nessuna legge garantisce l'esistenza di persone oneste:
servono a limitare - e giustamente punire - i comportamenti delle persone che
oneste non sono. Chi è onesto non ha bisogno di leggi per ricordargli di
esserlo: l'onestà è parte della loro moralità e stile di vita. Lo stesso vale
per la qualità. Se un produttore crede nella qualità e nel rispetto della sua
vigna e del suo territorio, non ha bisogno di leggi che glielo impongano. Lo fa
perché ci crede, perché sa che è giusto così.
La corsa alle denominazioni, vedere il proprio territorio riconosciuto
dall'ufficialità di una denominazione, usata poi come strumento di promozione
per la diffusione sia del nome sia del vino, non ha molto senso. È la qualità
vera, quella che si mette dentro la bottiglia, a fare la differenza, non certo
sapere che il tal vino è DOC o DOCG. Personalmente, confido molto più sui
produttori e sulla loro capacità - provata dal tempo e, soprattutto, dal calice
- a determinare il mio apprezzamento. E soprattutto, trovo ancor meno
interessante, una Denominazione che guarda poco al proprio territorio e alle
proprie varietà, con l'unico e chiaro scopo della speculazione attraverso la
produzione di vini senza identità e senza carattere, vini che si confondono
nell'anonimato di mille altri. Ma si sa, il conferimento di una denominazione è
anche il risultato di mediazioni politiche, la dimostrazione del potere dei
politici di un territorio. Qualcosa che con la qualità, quella vera, non ha
proprio nulla in comune. Proprio perché il territorio non ha bisogno della
politica e delle logiche speculative per dimostrare il proprio talento. L'unica
cosa da fare è saperlo ascoltare e trattarlo con onestà e rispetto. E per fare
questo serve un grande interprete, proprio come un direttore d'orchestra con una
sinfonia. Altro che denominazioni.
Antonello Biancalana
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