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  Editoriale Numero 228, Maggio 2023   
Chi Ha Paura della Barrique?Chi Ha Paura della Barrique?  Sommario 
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Chi Ha Paura della Barrique?


 Mi capita molto spesso di soffermarmi su come il mondo del vino sia cambiato nel corso degli ultimi venti anni, in certi casi, molto in fretta. Č inevitabile non riflettere su come certe “mode” siano nate, cresciute ed esaltate all'estremo, per poi iniziare il proprio declino, quindi rinnegate, non da meno, considerate come fenomeni che è bene tenere nascosti, anche quando fanno parte del processo enologico utilizzato. Questi comportamenti si verificano praticamente in ogni paese vitivinicolo del mondo, tuttavia, in Italia mi pare essere un atteggiamento ricorrente e che cambia con le mode, anzi, opportunità, del momento. All'apparire di una nuova moda o tendenza enologica, penso sempre si tratti inevitabilmente di un fenomeno in attesa di cadere nell'oblio con tanto di feroce osteggiamento. Quando questo accade – cioè il verificarsi della fine più o meno ingloriosa – mi viene in mente sempre lo stesso vecchio adagio latino: sic transit gloria mundi.


 

 Uno di questi “fenomeni” è innegabilmente la barrique. Vi ricordate quando, negli anni 1990, bastava questa magica parola per vendere un vino, anche di dubbia qualità? Molte bottiglie sfoggiavano, in bella vista nelle etichette, perfino l'abominevole neologismo barriccato – o barricato – a sottolineare che quel divin nettare prometteva emozioni paradisiache per il fatto di essere stato baciato dalla barrique. Composizione delle uve? Non era importante: è barriccato, tutto il resto ininfluente e insignificante. Ogni cantina, se voleva accedere al paradiso enologico, doveva sfoggiare, sia in cantina sia nelle etichette, le barrique. A quei tempi, visitando le cantine di certi produttori, alla vista delle magiche botticelle di stile bordolese, seguiva l'annuncio solenne del numero di barrique possedute. In certe cantine, poi, la barrique era l'unico tipo di botte presente. Qualsiasi contenitore di legno con un volume superiore a 225 litri era stato sacrificato in favore della salvifica barrique.

 C'era inoltre una sorta di gara nello sfoggiare il numero di mesi trascorsi dal vino all'interno della barrique, tanto che – in molti casi – il povero vino soccombeva sotto il peso di tanto legno che ne cancellava identità e qualità. Però era barriccato. Anzi, in certi casi, il produttore stesso – durante l'assaggio dei suoi vini – trionfalmente e con non poco orgoglio sottolineava il profumo e il sapore di barrique dei suoi vini. Era un pregio, la prova inconfutabile della più alta qualità. Una sorta di competizione che, inevitabilmente, portò all'esasperazione dell'omologazione organolettica poiché, in molti casi, il vino era pressoché indistinguibile dagli aromi ceduti dalla barrique. Tutti uguali, tutti orgogliosamente barriccati con il nobile e ingombrante afrore di rovere. Sembrava non esserci tregua alla corsa della barrique e i produttori, per non essere da meno di altri, versavano allegramente i più disparati e malcapitati vini nelle piccole botti bordolesi confidando nell'agognato miracolo enologico.

 Fu così che nelle barrique finirono anche una quantità enorme di uve e vini esili e sottili, totalmente schiacciati dal peso e dalla personalità del rovere nuovo e ben tostato, con il risultato di produrre un infuso alcolico al sapore di legno e che ben presto furono battezzati come “vini del falegname”. All'inizio – ammettiamolo – questi vini erano anche “divertenti” da assaggiare, nonostante l'obbrobrio enologico, ma ben presto finirono per annoiare ed esasperare chiunque, produttori compresi. Ricordo, a quei tempi, ogni volta mi capitava di assaggiare un vino fortemente marcato da quello che la barrique aveva copiosamente ceduto, mi veniva sempre e puntualmente in mente la celebre considerazione di Émile Peynaud, il grande enologo francese, fra i più influenti e importanti del secolo scorso, che ci ha lasciato – non da meno – una ricca e importante bibliografia enologica. Il grande enologo francese, fra le tante cose dette a proposito dell'uso del legno in enologia, sottolineava che «il migliore vino passato in legno è quello dove il legno non si sente». Disse inoltre che «il legno andava usato nei vini come si usano le erbe aromatiche in cucina, facendo risaltare meglio gli altri aromi».

 Dopo queste considerazioni di Émile Peynaud, nella mia mente affiorava puntualmente anche un altro celebre detto dell'enologo francese: «Siete voi (consumatori) che in un certo senso fate la qualità. Se ci sono vini cattivi è proprio perché ci sono dei cattivi bevitori. Il gusto è conforme alla rozzezza dell'intelletto: ognuno beve il vino che merita». Evidentemente, a quei tempi, il gusto dei bevitori di vino – buoni o cattivi – apprezzava oltremodo il gusto del legno. Se piace e si vende, ovviamente, si produce, con buona pace di Émile Peynaud e dei suoi insegnamenti. La moda dei vini del falegname – così scherzosamente si chiamavano a quei tempi i vini al gusto di legno – riguardò non solo l'Italia, ma anche altri paesi vitivinicoli del mondo, come Stati Uniti d'America, Australia, Cile e Spagna. In certi casi, non si salvò nemmeno la Francia – che è patria della Barrique – e accadeva di ritrovarsi nel calice qualche vino d'oltralpe inopinatamente massacrato dalla barrique.

 Questo fenomeno, come dicevo, ha progressivamente portato all'esasperazione organolettica dei vini, tanto che dall'entusiasmo si passò progressivamente allo sdegnato rifiuto. Già all'inizio degli anni 2000 la “moda della barrique” si avviava verso il viale del tramonto così come l'orrendo termine “barriccato” eliminato dalle etichette. La barrique, accusata di essere il primario colpevole dell'omologazione sensoriale dei vini, doveva, in qualche modo, scomparire dall'immaginario dei consumatori. Ma non in quello dei produttori che, nonostante l'infame accusa di omologazione, hanno continuato – e continuano – a usarla. Certo, non più come in passato, probabilmente si è finalmente compreso il reale ruolo della barrique, che di certo non è quello di alterare oscenamente le caratteristiche sensoriali del vino. I produttori, oggi, continuano a usare la barrique ma, in molti casi, hanno perfino paura di ammetterlo, tanto che, spesso, evitano perfino di citarla nelle caratteristiche produttive di un vino.

 Per non disturbare la serenità degli appassionati che, nel frattempo, hanno maturato una repulsione e avversione da barrique, convinti ancora che si tratti del male assoluto, molti produttori preferiscono chiamarla con nomi più accettabile. Nelle retro etichette dei vini e nelle relative schede di produzione, è tutto un fiorire, spesso anche fantasioso, non da meno, fuorviante, di termini alternativi che alludono alla barrique senza mai espressamente farne menzione. Legno piccolo, botte piccola, carati di rovere, fusti piccoli, caratello, rovere piccolo e chi più ne ha, più ne metta. Nel caso di carato e, peggio ancora, di caratello, il termine risulta essere palesemente inappropriato e fuorviante, sia per il volume sia per l'utilizzo rispetto alla barrique. In ogni caso, sempre meglio che citare la temuta botte bordolese da 225 litri e suscitare lo sdegno dei “puristi” del vino che nei loro calici sognano solamente nettari incontaminati e “veri”, in accordo alla più rigorosa e ortodossa delle tradizioni.

 Mi viene sempre da sorridere a leggere questi “acrobatici” tentativi di indorare la pillola, evitando la parola barrique ma alludendo direttamente a essa. Un po' come accade nelle etichette di certi preparati alimentari nei quali è presente il glutammato monosodico – entrato da tempo nella lista nera dei veri intenditori del buon mangiare – e sono tutti contenti e rassicurati quando non lo leggono nelle etichette ma trovano, per esempio, estratto di lievito. Felici e rassicurati, si affrettano a festeggiare con una buona scaglia di formaggio grana stagionato, nel quale il glutammato monosodico è notoriamente e naturalmente contenuto e non aggiunto. Credo sia superfluo ricordare che la barrique – in sé – non ha colpa alcuna, piuttosto la colpa ricade nella responsabilità di chi la usava, o continua a usarla, in modo inappropriato o eccessivo. La barrique non è né buona né cattiva: è semplicemente uno strumento enologico, aggiungerei, molto importante e utile, e quando usato in modo opportuno e corretto, risulta – per certi vini – fondamentale e determinante. Anche quando la si chiama affettuosamente legno piccolo, carato di rovere o botte piccola – come si dice in Italia – “se non è zuppa, è pan bagnato”.

Antonello Biancalana



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