Il Prosecco è un vino di innegabile successo, fra i più prolifici e proficui che
si producono in Italia, senza ombra di dubbio alcuno, uno dei maggiori vini
italiani conosciuti nel mondo. Vino di successo, appunto, e come spesso accade,
il successo si paga e ha un prezzo. Il Prosecco è anche un vino
irrequieto, non tanto per l'esuberanza delle sue bollicine, piuttosto per
le vicende che, da sempre, contraddistinguono le sue vicissitudini, sia nel
proprio Paese sia negli altri. Un successo planetario enorme, tanto da influire
pesantemente sul concetto dei vini spumanti in generale, in modo particolare in
quello della mescita, dove – troppo spesso – qualunque vino frizzante o
spumante è genericamente chiamato prosecco, fino all'orripilante e
becera definizione diminutiva che assume, almeno per me, la fastidiosissima
definizione di prosecchino. Anche questo è chiaramente conseguenza del
successo, sebbene – in questo caso – non certo definibile in modo positivo,
certamente una moda di cui non essere orgogliosi, tuttavia utile a
evidenziare la penosa e scarsissima preparazione enologica e professionale dello
sciagurato mescitore per caso di turno.
I produttori, in verità, hanno cercato di porre rimedio, anche in conseguenza
delle vicende relative all'uso del nome Prosecco, omonimo quartiere di
Trieste, quindi in Friuli Venezia-Giulia. Il nome di questo quartiere, com'è ben
noto, ha dato in passato il nome sia all'uva sia al celebre vino spumante e che,
a sua volta, deriva dal suo nome sloveno Prosek. Nel 2009, con lo scopo di
tutelare la DOC Prosecco (quindi il vino), fu introdotto l'obbligo di chiamare
l'uva Prosecco con il nome Glera. Una forma di tutela preventiva adottata anche
in conseguenza di quanto accadde nella disgraziata e nota vicenda fra il Tokaji
ungherese e l'uva Tocai Friulano. Il nome Prosecco, riferito al vino, è
innegabilmente evocativo ed equivocabile, lasciando intendere un chiaro
riferimento alla quantità di zuccheri contenuti nel vino, cioè a favore del
secco o tendenzialmente secco, facendo quindi supporre una certa dolcezza.
Ed è proprio a causa di questo equivoco che sono state perpetrati palesi e
innumerevoli tentativi di imitazione, proprio giocando in tutto o in parte sia
con il prefisso pro sia con la parola secco, quest'ultima innegabilmente
di uso tecnico-enologico, proprio a significare il grado di dolcezza di un vino.
Com'è ben noto, il successo è qualcosa che suscita l'interesse di quelli che ne
hanno meno, spesso tentando di sfruttarlo in modo subdolo e, non da meno, perfino
ricorrendo in modo palese al plagio. In questo senso, il Prosecco, e più in
generale, i prodotti dell'agroalimentare italiano, subiscono da sempre tentativi
palesi di plagio e di imitazione. Dai formaggi ai vini, passando per
qualunque prodotto alimentare italiano di successo nel mondo, l'elenco è
decisamente molto lungo. Il Prosecco – il celeberrimo vino spumante che, di
certo, non ha bisogno di ulteriori presentazioni – è certamente fra i prodotti
italiani a essere maggiormente plagiato, molto spesso con vini, non
necessariamente spumanti, venduti con nomi che inequivocabilmente ricordano il
celebre vino trevigiano. L'espediente più tipico è quello di giocare con il
termine secco che, come già detto, è anche un termine utilizzato nel mondo
enologico per indicare il grado di dolcezza, quindi il contenuto di zuccheri in
un vino. A prescindere dal suo lecito e inequivocabile uso, molto spesso il
tentativo di plagio nei confronti del Prosecco è fin troppo evidente.
Nelle scorse settimane, i consorzi di tutela del Prosecco – nelle sue diverse
denominazioni – unitamente alle associazioni di categoria e le Istituzioni
Italiane, si sono opposte in seno alla Comunità Europea contro la richiesta del
riconoscimento di protezione per un vino croato, una questione che sembrava
sopita dal 2013. La Croazia, infatti, ha inoltrato domanda di protezione
– con tanto di pubblicazione nella Gazzetta della Commissione Agricoltura
dell'Unione Europea – della menzione tradizionale Prošek. Si tratta di
un vino della Croazia Meridionale, che – in effetti – non ha alcuna analogia
enologica con il Prosecco italiano, poiché si tratta di un vino dolce – prodotto
con uve appassite – negli stili bianco e rosso. Quindi, in questo caso, non si
tratta di emulare lo stile, piuttosto – così sostengono dall'Italia – di
ottenere il riconoscimento per un palese caso di italian sounding,
cioè evocare un prodotto italiano con un nome simile, quindi equivoco.
Se è vero che le tantissime ragioni e proteste sollevate in passato a tutela del
Prosecco erano lecite e legittime, ritengo, tuttavia, che non si possa sostenere
questo atteggiamento sempre e comunque. Sia chiaro: la tutela delle produzioni
agro-alimentari dell'Italia è indiscutibile e, quando il tentativo di plagio è
appurato, si deve intervenire risolutamente e inequivocabilmente, sia per la
salvaguardia della produzione italiana, sia per la tutela dell'indotto economico.
Pare altrettanto evidente che, quando si copia o si esegue il plagio di qualcosa,
lo si fa unicamente con prodotti di successo, come il vino Prosecco, appunto. Il
caso del Prošek croato, a mio avviso, andrebbe considerato in modo diverso.
Si tratta di un vino dolce, prodotto con uve passite, negli stili bianco
– ottenuto dalle varietà autoctone Bogdanuša, Maraština, e Vugava – e
rosso, quest'ultimo prodotto aggiungendo alle uve dello stile bianco, la varietà
Plavac Mali. Fin troppo evidente, il nome – Prošek – richiama
inequivocabilmente il celebre vino spumante prodotto in Veneto e nel Friuli
Venezia-Giulia.
La Croazia, nel rigettare le accuse mosse dall'Italia, sostiene che il loro
Prošek è un vino tradizionale e prodotto da lungo tempo, vantando una storia
di circa trecento anni, alcuni azzardano addirittura due millenni. I croati,
infatti, in accordo alla dichiarazione del proprio Ministro dell'Agricoltura,
sostengono che il Prošek è un vino dolce tradizionale del paese, citato per
la prima volta nel 1774, attualmente prodotto nelle aree a denominazione di
origine protetta della Dalmazia settentrionale, centrale e meridionale, Zagora
dalmata e Dingac. Nella stessa dichiarazione, si sottolinea inoltre che
attualmente sono solamente trenta produttori impegnati nella produzione di questo
vino, per un totale di 20 ettolitri all'anno – di fatto, poco più di 2600
bottiglie – le quali sarebbero, per la maggior pare, interamente
commercializzate nel mercato interno. Numeri che, confrontati con quelli del
Prosecco –cinquecento milioni di bottiglie nel 2020 – pare difficile credere
a un'ipotetica minaccia di mercato. Sarebbe come se il piccolo Davide dovesse
affrontare – a mani nude e senza nemmeno contare sulla sua portentosa fionda –
milioni di copiosi eserciti di agguerriti Golia e armati di tutto punto.
Si potrebbe sostenere che si tratta anche di una questione di principio: del
resto, si obietta la registrazione del nome Prošek, considerata una minaccia
per l'identità del Prosecco italiano. Come già detto, i tentativi di plagio del
nome di questo celebre vino italiano sono stati e sono tanti, pertanto il
Prošek rappresenterebbe l'ennesimo tentativo. Ritengo – ed è mia
personalissima opinione – che se è vero che il Prošek è un vino tradizionale
della Croazia, con una storia documentata e documentabile, non è giusto negare
l'affermazione di questa identità, parte della storia enologica della Croazia,
quindi del mondo del vino in generale, esattamente come il Prosecco lo è per
l'Italia, solo perché esiste un'evidente similitudine dei due nomi. Esattamente
com'è giusto e indiscutibile che l'Italia affermi e tuteli le proprie produzioni
agro-alimentari, lo stesso diritto è parimenti giusto e inalienabile per
qualunque altro paese. Mi preoccuperei, piuttosto, qualora un consumatore dovesse
acquistare il Prošek croato convinto che, in realtà, si tratti di Prosecco
italiano. Non solo un pessimo consumatore, ma decisamente un ignorantissimo
bevitore di vino. Qualcuno che, personalmente – per l'amore, la passione e
il rispetto che io ho per il vino – è bene perdere, poiché non sarebbe nemmeno
un degno ambasciatore né del Prošek né del Prosecco. Tanto meno del
vino.
Antonello Biancalana
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