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  Editoriale Numero 222, Novembre 2022   
Le Belle Favole non Fanno il Vino BuonoLe Belle Favole non Fanno il Vino Buono  Sommario 
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Le Belle Favole non Fanno il Vino Buono


 L'ho detto e scritto tante volte oramai, non solo perché si tratta di normale evoluzione delle cose e dei tempi, ma perché è oltremodo inevitabile: tutto cambia. Questo è un principio nel quale ho sempre creduto e al quale mi sono continuamente adattato, convinto che l'essere inamovibili e pervicacemente convinti le cose non debbano cambiare, è un enorme errore, oltre che una vana illusione. Soprattutto quando si evita il cambiamento sostenendo che “si stava meglio negli anni passati”, dimenticando che l'unica certezza che noi tutti abbiamo adesso è il presente – oggi – e la prospettiva del futuro. Tutto cambia, inevitabilmente tutto cambia. Cambiano le abitudini, cambiano i gusti, cambiano le necessità, noi stessi siamo il risultato di un cambiamento continuo e che inizia nell'esatto momento in cui siamo concepiti. Cambia anche il vino, evidentemente. La storia è li a raccontarcelo e, senza ombra di dubbio, il vino prodotto in tempi arcaici sarebbe oggi considerato semplicemente imbevibile per la maggioranza di noi “umani moderni”. Certamente è vero anche il contrario: il nostro vino sarebbe stato decisamente sgradito a chi ci ha preceduto alcuni secoli fa. A noi – umani moderni dei nostri tempi – invece piace e anche molto. Tutto cambia, appunto.


 

 Cambia anche il modo con il quale le cantine e i produttori raccontano il proprio vino e, in particolare, ai visitatori. Nel corso degli anni – diciamo, almeno una trentina – ho potuto constatare quanto sia cambiato il rapporto dei produttori con i visitatori che, evidentemente, sono anche clienti o comunque potenziali acquirenti. Tutto cambia, come ho già ribadito più volte, ed è normale che anche questo aspetto sia cambiato e, senza dubbio, cambierà in futuro. Nelle cantine moderne, si nota palesemente una certa attenzione da parte dei produttori nella realizzazione di strutture specifiche destinate all'accoglienza dei visitatori, isolandole in modo più o meno palese dalle parti dedicate alla produzione. Si tratta, non da meno, di una tendenza che si è sviluppata negli ultimi anni con lo scopo di dare al visitatore l'impressione di essere in un'enoteca, in un wine bar, non da ultimo, in un ristorante. A volte ho l'impressione che l'intento delle cantine sia quello di creare una sorta di “sala ricreativa” per i visitatori che consenta loro di conversare fra amici, sorseggiando un calice di vino, accompagnato da “stuzzichini vari”. Una vetrina che mette in mostra un mondo dorato, spensierato e felice, quasi perfetto.

 Il tutto teatralmente supportato da un addetto – spesso, il produttore in persona – il quale cerca di intrattenere gli ospiti con avvincenti favole, facendo attenzione a rifornire prontamente gli ospiti di “stuzzichini” e ricolmare i calici. Il tema delle favole è sempre lo stesso, un soggetto che si ripete puntualmente in ogni occasione e luogo, con piccole varianti che si adattano alla dimensione e all'identità della cantina. Fra i temi più amati, la tradizione e l'identità del luogo, fulgidi difensori delle lunghe storie e tradizioni di famiglia, quando c'è. Oppure la perpetuazione dei fasti di uve, territori, abitudini e rigorose aderenze al passato, per forza migliore a prescindere perché, appunto, è passato. Quando poi annusi il calice, non solo è palese che quel vino non è esattamente quello che avrebbero prodotto i loro avi predecessori, ma è anche piuttosto modesto. Il più delle volte, almeno osservando le facce sorridenti e rapite del “pubblico”, nessuno se ne cura più di tanto, poiché è la favola raccontata in quel momento a supplire all'eventuale mediocrità del vino che esprime supposta tradizione e l'orgoglio di secoli. È la favola a divenire protagonista e ad allietare lo stupore di chi ascolta, fra un grissino e una fetta di salame. Il vino è una semplice comparsa.

 Le cantine sono diventate una sorta di “centro di accoglienza” per visitatori casuali o annoiati – sì, certo, anche sinceramente interessati – fiduciosi di trascorrere qualche ora spensierata a sorseggiare distrattamente un vino in compagnia e accompagnato da qualcosa da mangiare, ascoltando rapiti l'entusiasmante racconto che trasuda di strenua difesa dell'orgoglio di una tradizione o presunta tale. Anche pagando, giustamente. In fin dei conti, quando si va al cinema o al teatro, si paga il biglietto d'ingresso, così come quando si va al ristorante, poi si paga il conto. Principio ineccepibile, visto che, oramai, il capitolo “accoglienza” sta diventando per le cantine un costo rilevante oltre che un mezzo di comunicazione e promozione. Ogni cantina, senza ombra di dubbio alcuno, nonostante il forte impegno alla conservazione delle tradizioni di famiglia e la perpetuazione della produzione di un vino che si tramanda di generazioni, è anche un'impresa che deve necessariamente valutare il proprio bilancio e perseguire un profitto. Ineccepibile, comprensibile, legittimo e, soprattutto, indispensabile.

 Tutto cambia e probabilmente oggi non avrebbe senso – o meglio, non sarebbe più compreso – il modo con il quale si visitavano cantine decine di anni fa e il modo con il quale si faceva “accoglienza”. Ne parlo non certo con spirito di nostalgia – tutto cambia, appunto – ma come semplice motivo di confronto. Non c'erano sale e strutture dedicate alla degustazione dei vini, non c'erano piatti colmi di stuzzichini vari: si parlava solo di vino, vigne, uve, differenze fra le varie annate, soprattutto dal punto di vista viticolturale. L'accoglienza, il più delle volte, era fatta o nella cantina – con il forte odore di muffa e umido – oppure sotto una pergola nei pressi della casa del produttore perché, nella maggioranza dei casi, il medesimo edificio era sia la cantina sia l'abitazione. Altre volte, l'accoglienza si faceva direttamente in mezzo ai vigneti perché – dopo tutto – è proprio li che nasce il vino versato nel calice. Non ho chiaramente nostalgia di quei tempi proprio per il fatto che tutto cambia e probabilmente quel modo era adatto e coerente con quei tempi: non c'erano le solite favole da ascoltare perché a parlare era soprattutto il vino.

 Il produttore, al limite, raccontava come era riuscito a ottenere quel vino, nonostante le condizioni non sempre benevole dell'annata. Ed era proprio li che si poteva leggere nei suoi occhi il profondo orgoglio per condividere con te il frutto della sua terra e del suo lavoro. Si parlava anche di storie familiari perché, innegabilmente, quello che erano in quel momento era anche il risultato del contributo e dell'insegnamento di chi li aveva preceduti. Oggi invece, quando si visita una cantina, si è puntualmente accolti in una parte espressamente destinata a questa attività, non sempre è possibile vedere le strutture produttive, figuriamoci i vigneti. Quando questo è possibile, spesso si ha l'impressione di essere parte di un gruppo di “turisti in vacanza” con tanto di guida che scrupolosamente esegue i medesimi percorsi e racconta sempre le stesse favole. L'accoglienza in cantina, quindi, è diventata un'attività promozionale e di comunicazione, a mio avviso non sempre svolta in modo efficace e proficuo.

 Sono consapevole tutto questo è anche il risultato dei tempi che cambiano e, con molta probabilità, oggi è quello che le persone si aspettano quando visitano una cantina, cioè trovare un'attività vagamente ricreativa allietata da un calice di vino e del cibo, con la cornice dello spettacolo della favola da ascoltare. Del resto, faccio fatica a immaginare la maggioranza dei visitatori a camminare per le vigne, anche quando la terra è umida o bagnata, e uscirne con le scarpe cariche di fango, spesso anche i propri abiti. Oppure respirare l'odore dell'umidità e della muffa che talvolta è presente in certe cantine, soprattutto in quelle interrate nelle viscere della terra o di una grotta. È un po' come quello che accade per la ristorazione: tutti vogliono vedere la bella favola delle sale eleganti, fatta di cuochi affascinanti e bellissimi, nelle loro impeccabili divise immacolate, sovrani di un mondo facile e perfetto di pietanze eccelse. Non immaginano poi che, oltre quelle mura, nei locali della cucina si vivono ben altre fatiche, si lavora sodo e ci si sporca, in quello che è un mondo assolutamente diverso e lontano dalle favole dipinte nei vai programmi televisivi dedicati alla cucina.

 Lo stesso sta accadendo da tempo nel mondo del vino e nelle cantine: la reale fatica necessaria per la produzione del vino che ci troviamo nel calice deve essere, in qualche modo, nascosta e resa quasi inesistente, per così dire, “ripulita”. Eppure in vigna si fatica, e anche molto, ci si sporca e lo stesso accade quando l'uva giunge in cantina dando inizio alla produzione del vino. Questo non si deve vedere e non si deve nemmeno immaginare, sostituito dalla solita bella favola, sempre la stessa, sempre uguale per tutte le cantine. Tutti a raccontare la fedeltà indiscutibile alla tradizione – nonostante utilizzino modi e tecniche enologiche, uve e pratiche colturali molto distanti da quelle di chi li ha preceduti – rispetto per il territorio, integrità dei loro vini, così fortemente figli della natura delle loro terre. Sempre la medesima favola raccontata in qualunque cantina sorseggiando un vino che talvolta – distraendosi dal bel racconto fiabesco e ascoltando unicamente la voce del vino che urla dal calice – è decisamente modesto e anche con qualche difetto non esattamente da poco. Perché in definitiva, cari produttori, le favole sono belle, coinvolgenti, avvincenti ed emozionanti da ascoltare, ma non fanno il vino buono.

Antonello Biancalana



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