L'Italia, dal punto di vista enologico e viticolturale, detiene un primato
impossibile da raggiungere per qualunque altro paese del mondo. Il nostro Bel
Paese, infatti, vanta il maggiore numero di varietà autoctone di uve da vino, un
primato che non ha eguali altrove e con un distacco consistente anche sul paese
che occupa il secondo posto. In accordo al Registro Nazionale delle Varietà di
Uve da Vino, in Italia sono censite 610 uve diverse, fra autoctone e
internazionali. Un numero considerevole, che – a essere precisi – potrebbe
aumentare considerevolmente qualora si contassero anche i vari cloni esistenti di
molte varietà. Un patrimonio importante e che colloca, innegabilmente, l'Italia
ai vertici per diversità e ricchezza ampelografica, a testimonianza della lunga e
consolidata storia enologica del nostro Paese. Nei vigneti di ogni regione
italiana si possono trovare, senza difficoltà alcuna, diversi esemplari di viti
di uve autoctone, spesso attribuibili a piccoli territori, come i comuni. Molto
spesso, queste varietà sono così identitarie tanto da non essere presenti in
nessun altro luogo, non solo della regione, ma di tutto il Paese.
Un patrimonio di biodiversità viticola imponente e che, almeno in teoria,
dovrebbe garantire un vantaggio enorme in termini enologici. Per la maggioranza
dei casi, è esattamente così. In altri, invece, questo non corrisponde a un
chiaro vantaggio, almeno in termini di mercato e di competizione commerciale. Il
fatto di vantare un magnifico e ricco patrimonio di varietà autoctone, infatti,
non significa che tutte siano ineccepibilmente straordinarie in termini
enologici o viticolturali. A ben guardare, in effetti, i vini prodotti con alcune
varietà autoctone non corrispondono esattamente a criteri enologici di rilievo,
almeno se li valutiamo con il mercato moderno e le aspettative dei consumatori. A
tale proposito, si potrebbero fare decine di esempi, un elenco lunghissimo di
casi, territori e vini che – evidentemente – non riscuotono il successo sperato
nonostante l'impegno e la tenacia dei produttori nel cercare di mantenere
in vita un'uva autoctona e il relativo vino.
Molto spesso si tratta di operazioni con l'intento di resuscitare varietà
sprofondate nell'oblìo per decenni, riscoperte più o meno per caso, e quindi
riportate in vita decantandone lo straordinario valore identitario di un
territorio. In questi casi, che in verità si verificano sempre più spesso, mi
chiedo puntualmente il motivo per il quale una certa varietà autoctona sia stata
dimenticata per così tanto tempo, nonostante la sua riscoperta prometta sempre e
inevitabilmente le più alte vette dell'olimpo enologico. Sicuramente, un motivo
deve esserci e non può essere solamente legato alla pura distrazione o al destino
infausto e gramo. In fin dei conti, se quella certa varietà è stata trascurata
per decenni, ci sono stati certamente validi motivi che hanno spinto i vignaioli
di un tempo verso altre varietà. La risposta, in questo caso, è fin troppo
semplice: l'abbandono di una varietà – e non riguarda solamente la
viticoltura – è giustificata sia dagli scarsi risultati produttivi sia dalla
difficoltà della coltivazione in relazione a quanto si ottiene.
Per onestà, va osservato che molte delle varietà autoctone italiane sono state
sacrificate nei decenni passati in favore delle cosiddette varietà
internazionali che promettevano grandi vini e produzioni estremamente
remunerative. Le chiamavano, addirittura, uve migliorative proprio per il
fatto che si riconoscesse loro una presunta superiorità enologica. Si è quindi
provveduto all'espianto di molte delle varietà autoctone nei vigneti d'Italia
– consegnandole quindi all'oblìo – per fare posto a quelle varietà che
promettevano di replicare la gloria enologica degli altri paesi, in particolare
la Francia. Ecco quindi che i vigneti d'Italia furono allegramente invasi da
Merlot, Cabernet Sauvignon e Chardonnay, tanto per citare gli esempi più celebri.
In altri casi, e parliamo di un tempo ancor più lontano, a fare scomparire certe
varietà autoctone dai vigneti d'Italia ci pensò la fillossera, sicuramente
l'evento più nefasto che ha segnato la viticoltura e l'enologica del 1900. Anche
in quel caso, i vigneti decimati dal temibile afide, furono ripopolati con
varietà, trasformate nel frattempo resistenti e prevalentemente di origine
francese.
La riscoperta, o per meglio dire, la rivalutazione di certe varietà autoctone
dimenticate per decenni, puntualmente si trasforma in un evento di affermazione
dell'identità e valore di un territorio, sempre sostenuti da un presunto concetto
di elevata qualità poiché valore storico e tradizionale di quelle terre. Senza
offesa per nessuno, a mio parere autoctono non significa implicitamente
eccellente. Il messaggio che si cerca tuttavia di sostenere – per palesi e
legittimi interessi economici e di mercato – è quello che autoctono, meglio se
dimenticato per decenni, corrisponde sempre alla meraviglia di vini eccelsi, di
miracoli viticolturali ed enologici, di tradizioni magnifiche che, in quanto
tali, sono di elevatissima qualità a prescindere. Con un moto di agguerrito
campanilismo, per la ritrovata identità e storia di un territorio, inizia
puntualmente la solita e inevitabile sequenza di eventi, reclamando, spesso
pretendendo, l'immediato riconoscimento legale di questa ritrovata ed essenziale
qualità enologica. Ecco quindi che inizia la guerra per reclamare il
riconoscimento a Denominazione d'Origine Controllata (DOC), spesso raggiungendo
pure la più alta vetta del sistema italiano rappresentato dalla Denominazione
d'Origine Controllata e Garantita (DOCG).
La mia non è una critica alla riscoperta e alla rivalutazione di varietà
autoctone e territori: come ho già detto, il nostro patrimonio ampelografico è
assolutamente unico al mondo e rappresenta una ricchezza irripetibile altrove.
Tuttavia mi è pressoché impossibile non pensare, salvi i casi di infauste
sciagure che ne hanno decretato l'oblìo, che l'avere abbandonato una varietà
favorendone altre, è stata innegabilmente una scelta ben precisa fatta dai
viticoltori del passato. Una scelta che, evidentemente, non era determinata dal
fatto che fossero poco intelligenti oppure superficiali nella scelta delle
varietà che decidevano di coltivare nei loro vigneti. Più semplicemente, una
banale scelta di convenienza che assicurava il migliore risultato con il minore
sforzo, sia economico sia lavorativo. Si abbandonavano varietà – e non solo di
uve – semplicemente perché non era più conveniente coltivarle, probabilmente
nemmeno dal punto di vista qualitativo ed enologico. Questo è qualcosa che in
agricoltura è sempre accaduto e continua ad accadere: basta semplicemente
osservare, per esempio, la conversione massiccia di superfici agricole a favore
di colture più redditizie e favorevoli. La vite e l'uva non sono un'eccezione,
ovviamente.
Dal punto di vista meramente enologico e sensoriale, queste riscoperte di fiera
identità, non sempre corrispondono a risultati eclatanti e memorabili. Spesso le
tecniche enologiche moderne aiutano, e non poco, a contribuire alla produzione di
vini migliori, spesso con evidenti forzature, anche a costo di costruire
caratteri che in realtà non appartengono a quelle uve. In altri casi, invece,
l'enologia moderna riesce a esaltare alcune varietà, riuscendo finalmente a
esprimere la loro identità, impossibile da valorizzare con le tecniche del
passato. A questo, evidentemente, contribuiscono anche le pratiche viticolturali
e agronomiche moderne di qualità e, senza le quali, nessuna uva e nessun vino
riuscirebbe a raggiungere un risultato rilevante, nonostante le magie
enologiche che si possono compiere in cantina. Spesso – e ammetto questo può
essere a causa di un mio limite – mi trovo nel calice vini di varietà autoctone
riscoperte e rivalutate che, francamente, non raccontano nulla e con personalità
inesistenti. Vini che passerebbero inosservati al confronto con qualunque altro
vino, sopraffatti da pratiche enologiche decisamente molto più grandi e potenti
di loro, oppure insufficienti e inadeguate, spesso errate. Si tratta, con molta
probabilità, di un mio limite, poiché se un vino è prodotto con una varietà
autoctona, riscoperta e rivalutata in pompa magna, deve essere per forza eccelso
e ineccepibilmente di qualità assoluta. Senza eccezione alcuna, ci mancherebbe.
Antonello Biancalana
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