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  Editoriale Numero 223, Dicembre 2022   
Territori e Vini in Cerca di IdentitàTerritori e Vini in Cerca di Identità  Sommario 
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Territori e Vini in Cerca di Identità


 L'Italia, dal punto di vista enologico e viticolturale, detiene un primato impossibile da raggiungere per qualunque altro paese del mondo. Il nostro Bel Paese, infatti, vanta il maggiore numero di varietà autoctone di uve da vino, un primato che non ha eguali altrove e con un distacco consistente anche sul paese che occupa il secondo posto. In accordo al Registro Nazionale delle Varietà di Uve da Vino, in Italia sono censite 610 uve diverse, fra autoctone e internazionali. Un numero considerevole, che – a essere precisi – potrebbe aumentare considerevolmente qualora si contassero anche i vari cloni esistenti di molte varietà. Un patrimonio importante e che colloca, innegabilmente, l'Italia ai vertici per diversità e ricchezza ampelografica, a testimonianza della lunga e consolidata storia enologica del nostro Paese. Nei vigneti di ogni regione italiana si possono trovare, senza difficoltà alcuna, diversi esemplari di viti di uve autoctone, spesso attribuibili a piccoli territori, come i comuni. Molto spesso, queste varietà sono così “identitarie” tanto da non essere presenti in nessun altro luogo, non solo della regione, ma di tutto il Paese.


 

 Un patrimonio di biodiversità viticola imponente e che, almeno in teoria, dovrebbe garantire un vantaggio enorme in termini enologici. Per la maggioranza dei casi, è esattamente così. In altri, invece, questo non corrisponde a un chiaro vantaggio, almeno in termini di mercato e di competizione commerciale. Il fatto di vantare un magnifico e ricco patrimonio di varietà autoctone, infatti, non significa che tutte siano ineccepibilmente straordinarie in termini enologici o viticolturali. A ben guardare, in effetti, i vini prodotti con alcune varietà autoctone non corrispondono esattamente a criteri enologici di rilievo, almeno se li valutiamo con il mercato moderno e le aspettative dei consumatori. A tale proposito, si potrebbero fare decine di esempi, un elenco lunghissimo di casi, territori e vini che – evidentemente – non riscuotono il successo sperato nonostante l'impegno e la tenacia dei produttori nel cercare di mantenere in vita un'uva autoctona e il relativo vino.

 Molto spesso si tratta di operazioni con l'intento di resuscitare varietà sprofondate nell'oblìo per decenni, riscoperte più o meno per caso, e quindi riportate in vita decantandone lo straordinario valore identitario di un territorio. In questi casi, che in verità si verificano sempre più spesso, mi chiedo puntualmente il motivo per il quale una certa varietà autoctona sia stata dimenticata per così tanto tempo, nonostante la sua riscoperta prometta sempre e inevitabilmente le più alte vette dell'olimpo enologico. Sicuramente, un motivo deve esserci e non può essere solamente legato alla pura distrazione o al destino infausto e gramo. In fin dei conti, se quella certa varietà è stata trascurata per decenni, ci sono stati certamente validi motivi che hanno spinto i vignaioli di un tempo verso altre varietà. La risposta, in questo caso, è fin troppo semplice: l'abbandono di una varietà – e non riguarda solamente la viticoltura – è giustificata sia dagli scarsi risultati produttivi sia dalla difficoltà della coltivazione in relazione a quanto si ottiene.

 Per onestà, va osservato che molte delle varietà autoctone italiane sono state sacrificate nei decenni passati in favore delle cosiddette varietà “internazionali” che promettevano grandi vini e produzioni estremamente remunerative. Le chiamavano, addirittura, uve migliorative proprio per il fatto che si riconoscesse loro una presunta superiorità enologica. Si è quindi provveduto all'espianto di molte delle varietà autoctone nei vigneti d'Italia – consegnandole quindi all'oblìo – per fare posto a quelle varietà che promettevano di replicare la gloria enologica degli altri paesi, in particolare la Francia. Ecco quindi che i vigneti d'Italia furono allegramente invasi da Merlot, Cabernet Sauvignon e Chardonnay, tanto per citare gli esempi più celebri. In altri casi, e parliamo di un tempo ancor più lontano, a fare scomparire certe varietà autoctone dai vigneti d'Italia ci pensò la fillossera, sicuramente l'evento più nefasto che ha segnato la viticoltura e l'enologica del 1900. Anche in quel caso, i vigneti decimati dal temibile afide, furono ripopolati con varietà, trasformate nel frattempo “resistenti” e prevalentemente di origine francese.

 La riscoperta, o per meglio dire, la rivalutazione di certe varietà autoctone dimenticate per decenni, puntualmente si trasforma in un evento di affermazione dell'identità e valore di un territorio, sempre sostenuti da un presunto concetto di elevata qualità poiché valore storico e tradizionale di quelle terre. Senza offesa per nessuno, a mio parere “autoctono” non significa implicitamente “eccellente”. Il messaggio che si cerca tuttavia di sostenere – per palesi e legittimi interessi economici e di mercato – è quello che autoctono, meglio se dimenticato per decenni, corrisponde sempre alla meraviglia di vini eccelsi, di miracoli viticolturali ed enologici, di tradizioni magnifiche che, in quanto tali, sono di elevatissima qualità a prescindere. Con un moto di agguerrito campanilismo, per la ritrovata identità e storia di un territorio, inizia puntualmente la solita e inevitabile sequenza di eventi, reclamando, spesso pretendendo, l'immediato riconoscimento legale di questa ritrovata ed essenziale qualità enologica. Ecco quindi che inizia la guerra per reclamare il riconoscimento a Denominazione d'Origine Controllata (DOC), spesso raggiungendo pure la più alta vetta del sistema italiano rappresentato dalla Denominazione d'Origine Controllata e Garantita (DOCG).

 La mia non è una critica alla riscoperta e alla rivalutazione di varietà autoctone e territori: come ho già detto, il nostro patrimonio ampelografico è assolutamente unico al mondo e rappresenta una ricchezza irripetibile altrove. Tuttavia mi è pressoché impossibile non pensare, salvi i casi di infauste sciagure che ne hanno decretato l'oblìo, che l'avere abbandonato una varietà favorendone altre, è stata innegabilmente una scelta ben precisa fatta dai viticoltori del passato. Una scelta che, evidentemente, non era determinata dal fatto che fossero “poco intelligenti” oppure superficiali nella scelta delle varietà che decidevano di coltivare nei loro vigneti. Più semplicemente, una banale scelta di convenienza che assicurava il migliore risultato con il minore sforzo, sia economico sia lavorativo. Si abbandonavano varietà – e non solo di uve – semplicemente perché non era più conveniente coltivarle, probabilmente nemmeno dal punto di vista qualitativo ed enologico. Questo è qualcosa che in agricoltura è sempre accaduto e continua ad accadere: basta semplicemente osservare, per esempio, la conversione massiccia di superfici agricole a favore di colture più redditizie e favorevoli. La vite e l'uva non sono un'eccezione, ovviamente.

 Dal punto di vista meramente enologico e sensoriale, queste riscoperte di fiera identità, non sempre corrispondono a risultati eclatanti e memorabili. Spesso le tecniche enologiche moderne aiutano, e non poco, a contribuire alla produzione di vini migliori, spesso con evidenti forzature, anche a costo di “costruire” caratteri che in realtà non appartengono a quelle uve. In altri casi, invece, l'enologia moderna riesce a esaltare alcune varietà, riuscendo finalmente a esprimere la loro identità, impossibile da valorizzare con le tecniche del passato. A questo, evidentemente, contribuiscono anche le pratiche viticolturali e agronomiche moderne di qualità e, senza le quali, nessuna uva e nessun vino riuscirebbe a raggiungere un risultato rilevante, nonostante le magie enologiche che si possono compiere in cantina. Spesso – e ammetto questo può essere a causa di un mio limite – mi trovo nel calice vini di varietà autoctone riscoperte e rivalutate che, francamente, non raccontano nulla e con personalità inesistenti. Vini che passerebbero inosservati al confronto con qualunque altro vino, sopraffatti da pratiche enologiche decisamente molto più grandi e potenti di loro, oppure insufficienti e inadeguate, spesso errate. Si tratta, con molta probabilità, di un mio limite, poiché se un vino è prodotto con una varietà autoctona, riscoperta e rivalutata in pompa magna, deve essere per forza eccelso e ineccepibilmente di qualità assoluta. Senza eccezione alcuna, ci mancherebbe.

Antonello Biancalana



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