Qual è il vino che preferisci? Quale vino apri quando non lo devi fare per
motivi di lavoro e che ti piace condividere con gli amici? Qual è il
migliore vino? Questo genere di domande mi sono rivolte con precisa puntualità
dalle persone che conosco e da quelle che incontro. Non credo l'argomento del
mio vino preferito sia così interessante e, probabilmente, queste sono domande
rivolte con il semplice spirito di discussione e del confronto. Lo ammetto: a
questo genere di domande rispondo sempre con difficoltà, non perché non abbia
un vino preferito, piuttosto per il fatto che non si tratta di uno solo. È un
po' come tradire tutti gli altri favorendone uno solo, consapevole che,
comunque, anche il favorito non lo è in modo assoluto. In genere queste
domande rappresentano un tentativo di gratificazione personale con lo scopo di
avere una conferma alle proprie preferenze e ai propri gusti.
Si tratta anche di un modo per iniziare un confronto, cercando di capire la
mia predilezione o avversità verso uno stile particolare, nell'intento di
creare una dicotomia netta fra il buono e il cattivo. Questa divisione, che è
evidentemente del tutto soggettiva e personale, quindi opinabile, tende anche
a giudicare le posizioni intellettuali e culturali di ognuno, collocando le
persone da una parte oppure dall'altra. Se poi a queste domande rispondo
semplicemente che mi piace il vino buono - concetto evidentemente banale e
comunque soggetivo - allora l'interlocutore risponde con un rassicurante
sorriso, immaginando che il mio buono corrisponde certamente al suo
buono. Questa risposta, comunque, è certamente vera per ognuno, nonostante
sia evasiva e vaga. Dopo tutto, nessuno risponderebbe a domande simili
affermando che i suoi vini preferiti sono quelli cattivi.
Buono e cattivo sono concetti ai quali ognuno attribuisce un significato e un
valore personale, spesso definito in funzione dei contesti intellettuali e
culturali che si sentono più vicini al proprio pensiero. Sono concetti
indiscutibili se valutati unicamente come espressione personale,
certamente rispettabili anche se, spesso, non propriamente condivisibili.
L'aspetto fastidioso, ipocrita e puerile, è quando si ha la pretesa che il
proprio concetto di buono e cattivo debba per forza rappresentare un principio
universale indiscutibile. Posizioni che si esprimono, spesso, con
disgustosa arroganza, l'atteggiamento tipico di chi non è capace né di
sostenere e argomentare la propria posizione né di essere disposto a dubitare,
almeno un po', l'esistenza di altri punti di vista. Il senso di appartenenza a
qualcosa - si sa - è motivo di contrasto fra gli uomini e offre una
rassicurazione di identità sociale: la storia si ripete tristemente; non
impareremo mai dagli errori di chi ci ha preceduto.
Nel vino - esattamente come in altri ambiti - il proprio concetto di buono e
cattivo determina anche la classificazione degli altri nelle schiere dei
buoni e cattivi, degli esperti e degli ignoranti. Categorie che, sempre
e in ogni caso, sono del tutto arbitrarie e relative, pertanto discutibili in
ogni forma e principio. Se c'è una cosa che, da sempre, il vino ha saputo
dimostrare in modo efficace, è proprio quello della condivisione e della
socialità. Nobile bevanda dall'alto significato rituale, il vino è da sempre
simbolo perfetto della celebrazione e dell'amicizia. Forse è anche per questo
motivo che mi resta difficile condividere e comprendere quando il vino è usato
come strumento di divisione e di speculazione. Posso comprendere,
ma fino a un certo punto, questa posizione assunta da certi produttori che,
talvolta, credono sia questo il modo giusto per fare conoscere i loro vini.
Il vino è anche emozione e cultura: non solo quelle rappresentate dalla sua
terra e dagli uomini che lo hanno prodotto, ma anche l'emozione del momento nel
quale si consuma. Il contesto, la compagnia, il momento particolare nel quale
si decide di aprire una bottiglia di vino e di condividerla, determinano la
nostra predisposizione verso quel vino. Del resto ognuno di noi, pensando a un
vino, ricorda un particolare momento - piacevole o sgradevole - e nel quale
quel vino ha caratterizzato quell'occasione. Il ricordo certamente contribuisce
a considerare un vino buono o cattivo in funzione di quello che si è vissuto
nei momenti nei quali la bevanda di Bacco era, nel bene o nel male, parte del
momento. Per lo stesso motivo, un vino che incontra il nostro ideale di
modello viticolturale ed enologico - tecnico, culturale, intellettuale o
sentimentale - è probabile che sia valutato positivamente. Il senso di
gratificazione e la conferma a quello che sentiamo e pensiamo, è innegabile, ci
predispone positivamente o negativamente verso un vino.
Qual è, in definitiva, il vino che mi piace? Potrei rispondere, banalmente,
il vino che mi piace è quello che, in un determinato momento, contribuisce a
rendere più piacevole un'occasione. Se poi devo rispondere escludendo il
coinvolgimento sentimentale del momento, la risposta diventa, forse, più
esaustiva e fredda. Apprezzo, senza ombra di dubbio, i vini che non hanno
difetti riconducibili a qualunque natura o causa, capaci di esprimere eleganza,
equilibrio e pulizia. Mi rendo conto questa è una risposta che lascia intendere
a una cruda valutazione tecnica, ma è altrettanto vero che mi
infastidisce l'arroganza di chi, giustificando palesi difetti, cerca di farli
passare per pregi. Mi piace, infine, il vino semplicemente per quello che è,
espressione di chi lo produce senza la pretesa di usarlo per affermare qualcosa
che con il vino non ha nulla in comune e che spesso ha il sapore della sciocca
arroganza. Anche quello, per me, è un difetto. Non del vino - che non ha colpe
- ma della sciocchezza di chi ci crede.
Antonello Biancalana
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