Vino e chimica sono fra gli argomenti più dibattuti del mondo dell'enologia.
Soprattutto da parte dei consumatori che, giustamente, si preoccupano della
genuinità di quello che versano nel calice. Spesso si dimentica che il vino è,
in ogni caso, il risultato di un complesso processo chimico durante il quale gli
innumerevoli elementi che lo compongono subiscono delle trasformazioni radicali,
comunque essenziali per la nascita della bevanda di Bacco. In altre parole, la
Natura si serve della chimica per trasformare il succo d'uva in vino. Molto
spesso, innegabilmente, l'uomo fa la stessa cosa per controllare certi processi
e per plasmare il vino così da conferire determinate qualità e
caratteristiche. Ricordando che il processo naturale della vinificazione è
quello di trasformare il succo dell'uva in aceto: l'uomo si serve della
tecnologia e della chimica con lo scopo di evitare questo poco lodevole finale.
La necessità di controllare il processo di vinificazione non giustifica comunque
l'abuso della chimica e della tecnologia. Il limite non sempre è definito dal
buon senso di chi ne fa uso, ma anche dal rispetto per coloro i quali consumano
il vino in modo consapevole e la loro salute. Non meno importante, infine, il
rispetto per la vite, l'uva, il vino e la millenaria cultura e tradizione che
tutto questo rappresenta. Produrre un vino con il minore numero di difetti è
certamente auspicabile e un difetto, naturale o meno, resta comunque tale a
discapito della qualità del vino. A questo proposito si deve ricordare che per
raggiungere questo obiettivo è sempre e comunque indispensabile la qualità della
materia prima: l'uva. Se è vero che da un'uva di qualità si può ottenere un vino
di grande qualità, da un'uva di pessima qualità si può ottenere al massimo -
grazie all'abilità dell'enologo - un vino mediocre. La differenza fra un bravo
enologo e uno meno bravo, non è tanto quello che riesce a fare in cantina,
piuttosto quello che riesce a ottenere dalla vigna, da solo o con il
fondamentale aiuto dell'agronomo.
Fra i tanti aiuti impiegati nella produzione del vino, certamente il più
utilizzato in assoluto è l'anidride solforosa. Non solo l'elemento chimico
maggiormente usato in enologia, ma anche quello del quale si parla maggiormente
più di ogni altro. Usare la minore quantità possibile di anidride solforosa nel
vino è certamente auspicabile - e quando si verifica, il risultato si apprezza
notevolmente nel calice - ma va detto che eliminare completamente il suo uso in
enologia è praticamente impossibile. La Natura, bontà sua, provvede ad
aggiungere anidride solforosa nel vino durante la fermentazione alcolica, poiché
questo è semplicemente un sottoprodotto dell'attività dei lieviti. Si parla di
quantità ovviamente molto inferiori a quanto l'uomo - per legge o per necessità
- introduce nel mosto e nel vino durante la produzione. In altre parole, un vino
senza anidride solforosa - o più semplicemente, senza solfiti - non può
esistere. Si può certamente limitare il suo uso, ma non è possibile eliminarlo
completamente dal vino.
L'anidride solforosa, indipendentemente dalla forma del suo utilizzo, consente
all'enologo di stabilizzare il vino, di impedire lo sviluppo di certi difetti,
compresa l'ossidazione. Si deve inoltre ricordare che l'anidride solforosa è
ampiamente utilizzata dall'industria alimentare, spesso in quantità ben maggiori
di quelle consentite per legge in enologia. In accordo alle vigenti leggi
comunitarie, la quantità massima di anidride solforosa che si può impiegare
nella produzione dei vini è fissata a 150mg/l per i vini rossi e 200mg/l per i
vini bianchi e rosati. La quantità massima ammessa per i vini dolci è
decisamente più elevata, attualmente fissata a 400mg/l. È bene precisare che
questi rappresentano i valori massimi ammessi: nella maggioranza dei casi nei
vini si rilevano quantità di anidride solforosa inferiori. Si deve infine
precisare che l'anidride solforosa non è comunque salutare per l'uomo e, in
certi casi, questa può provocare allergie anche importanti in soggetti
particolarmente sensibili a questo gas.
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Sali di metabisolfito di
potassio: il modo più comune per aggiungere anidride solforosa al vino e al
mosto | |
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A questo proposito, è bene ricordare che l'Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) ha stabilito la dose giornaliera ammissibile di anidride solforosa pari a
0,7 milligrammi per ogni chilogrammo di peso corporeo. Facendo un rapido calcolo
e considerando un soggetto maschile del peso di 80 chilogrammi, la dose
giornaliera ammissibile è pari a 56 milligrammi. Questo significa che, qualora
in un vino bianco fosse utilizzata la dose massima stabilita per legge, mezza
bottiglia di vino - 375 millilitri - è sufficiente a superare ampiamente la dose
giornaliera ammissibile. I vini e, non da ultimo, le bevande e gli alimenti
contenenti basse dosi di anidride solforosa sono più salutari e vanno certamente
preferiti. Sempre parlando di limiti, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha
stabilito che una dose di 1,5 grammi di anidride solforosa per chilogrammo di
peso corporeo è da considerarsi letale. In soggetti particolarmente sensibili,
l'anidride solforosa può provocare emicranie ed essere causa di disturbi e
reazioni allergiche.
L'anidride solforosa si combina facilmente con l'ossigeno e questo è uno dei
motivi per i quali si usa in enologia, evitando quindi l'ossidazione del vino.
Se la quantità di anidride solforosa può essere motivo di preoccupazione per la
salute, desiderando quindi di assumerne la minore quantità possibile, questa sua
predilezione per l'ossigeno può essere certamente utile. Facendo infatti
ossigenare il vino prima del consumo, la quantità di anidride solforosa può
essere notevolmente ridotta. Il modo più rapido ed efficace consiste nel roteare
il calice - facendo bagnare quanta più superficie possibile - operazione che
può consentire di liberare anche il 30-40% dell'anidride solforosa contenuta
nel vino, oltre a favorire un migliore sviluppo degli aromi. Lo stesso risultato
si può ottenere attraverso la decantazione del vino - operazione traumatica
da preferire solamente nel caso di presenza di sedimento - mentre è del tutto
inefficace aprire la bottiglia qualche ora prima del consumo.
I motivi per i quali l'anidride solforosa è impiegata in enologia sono
molteplici. Svolge un effetto antisettico, pertanto aggiunta già nel mosto
produce una selezione di batteri e lieviti eliminando quelli meno resistenti
garantendo, nel contempo, maggiore stabilità. L'azione antisettica dell'anidride
solforosa produce quindi anche un'azione selettiva sui tipi di lieviti che
svolgeranno la fermentazione alcolica, ricordando che - in genere - i batteri
sono molto meno resistenti a questo gas rispetto ai lieviti. L'anidride
solforosa è utile anche in fase di decantazione del mosto, poiché rallentando
l'attività dei lieviti, previene l'avvio della fermentazione favorendo la
decantazione delle parti solide. Favorisce una maggiore estrazione delle
sostanze coloranti nelle uve rosse grazie al suo potere di rendere le bucce più
permeabili. Infine, come già detto, svolge un'efficace azione antiossidante
grazie alla sua capacità di legarsi con l'ossigeno, impedendo a quest'ultimo di
legarsi con le sostanze del vino e del mosto.
L'anidride solforosa può essere aggiunta nel vino e nel mosto in modi diversi.
Il metodo più tradizionale e antico - ma anche quello meno controllabile in
termini di quantità effettivamente somministrata - consiste nel bruciare una
pastiglia di zolfo all'interno del recipiente che ospiterà il vino o il mosto.
La combustione dello zolfo produce, infatti, anidride solforosa. L'enologia
moderna, con lo scopo di controllare rigorosamente la quantità di gas aggiunto,
impiega altri metodi, dei quali il più diffuso consiste nell'impiego di
metabisolfito di potassio. Questa sostanza, che si presenta in forma di sali
bianchi, a contatto con il mosto o il vino produce anidride solforosa nella
misura di circa 0,55 grammi per ogni grammo aggiunto. Altri metodi di
somministrazione dell'anidride solforosa prevedono l'impiego di soluzioni
liquide oppure l'impiego di bombole contenenti questo gas che, ricordiamo, è
incolore tuttavia facilmente riconoscibile per il suo caratteristico odore acre.
Per completezza di informazione, va detto che recentemente si stanno cercando
delle alternative all'impiego dell'anidride solforosa in enologia, non solo
limitandone la quantità, ma addirittura evitando completamente il suo uso.
Alcuni di questi tentativi hanno prodotto risultati molto promettenti che
lasciano immaginare un futuro enologico senza l'aggiunta di anidride solforosa,
ricordando - in ogni caso - che questo gas è comunque prodotto durante la
vinificazione. Vini prodotti con queste tecniche sono già commercializzati da
qualche anno, sottolineando in etichetta che si tratta di vini senza solfiti: in
realtà sarebbe più corretto dire che si tratta di vini senza solfiti
aggiunti. La quantità di anidride solforosa prodotta durante la vinificazione
è comunque inferiore a qualunque aggiunta operata ai fini enologici e riuscire a
produrre un vino senza solfiti aggiunti è certamente auspicabile, non da ultimo,
per i ridotti effetti sulla salute.
Dal punto di vista organolettico, l'anidride solforosa può alterare in modo
drastico qualunque aspetto sensoriale del vino. Alcuni effetti sono certamente
positivi, mentre altri sono del tutto negativi, effetti che si verificano
generalmente con il suo cattivo uso, in particolare l'eccesso. Se utilizzata
correttamente - e questo non significa usarla nelle quantità massime stabilite
per legge, ma restare comunque ben al di sotto - conferisce al vino una maggiore
stabilità nel tempo. Riconoscere l'anidride solforosa nei vini è molto semplice,
soprattutto al naso: quando usata in modo eccessivo o inappropriato, si
percepirà sempre il fastidioso odore acre tipico dello zolfo e che tende a
coprire tutto il resto. Quantità eccessive di anidride solforosa portano anche a
un accumulo di acetaldeide che, quando ingerita, provoca malesseri e disturbi
alla salute, ricordando che questa è più tossica dell'alcol etilico. L'eccesso
di anidride solforosa porta anche alla formazioni di acido solfidrico e
mercaptani, conferendo al vino uno sgradevole aroma di aglio e uova marce.
L'effetto conservante dell'anidride solforosa assicura al vino una vita più
lunga, in modo particolare per il suo effetto antiossidante, prevenendo quindi
l'alterazione del profumo e del sapore con caratteri tipicamente ossidativi. Dal
punto di vista visivo, l'anidride solforosa stabilizza il colore, soprattutto
nei vini rossi, favorendo inoltre l'estrazione dalle bucce durante la
macerazione e la fermentazione. Il profumo dei vini trattati correttamente con
anidride solforosa è generalmente più fine grazie al suo effetto selettivo
nei lieviti e nei batteri, poiché consente una fermentazione più regolare e
controllabile. L'uso corretto dell'anidride solforosa riduce anche la quantità
di acidità volatile - riconoscibile per l'aroma più o meno intenso di
spunto, cioè di aceto - grazie alla sua azione antisettica contro i
batteri acetici. Gli effetti antisettici e antiossidanti, quando questo gas è
usato in modo corretto, consentono di conservare più a lungo le qualità
aromatiche originali del vino. Infine, durante la sua volatilizzazione,
l'anidride solforosa aiuta la percezione di certi aromi fruttati.
L'eccesso di anidride solforosa - dipendente anche alla sensibilità verso questo
gas, in alcuni soggetti già rilevabile in quantità di 20-30mg/l - conferisce al
vino un sapore solforato, nascondendo le qualità aromatiche e gustative
del vino. Il corretto uso dell'anidride solforosa migliora il sapore del vino,
non per le sue caratteristiche organolettiche, piuttosto per il suo effetto
conservante, prevenendo l'ossidazione e lo sviluppo di batteri. Infine, è bene
ricordare che la normativa europea prevede l'indicazione in etichetta della
dicitura contiene solfiti nei vini con un contenuto di anidride solforosa
superiore a 10mg/l. Questa dicitura è quindi praticamente presente in ogni vino,
anche in quelli prodotti senza aggiunta di anidride solforosa, poiché i lieviti,
durante la fermentazione e a seconda del tipo, possono produrre quantità
variabili di questo gas fra i 6 e i 40 mg per litro. In questo senso - e
ingiustamente - la normativa non fa distinzione fra un vino prodotto senza
l'aggiunta di anidride solforosa e uno contenente la dose massima prevista per
legge, cioè 200mg/l per i bianchi e rosati, 150mg/l per i rossi.
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