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  Editoriale Numero 118, Maggio 2013   
Riusciremo a Riparlare di Vino?Riusciremo a Riparlare di Vino?  Sommario 
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Riusciremo a Riparlare di Vino?


 Lo so, torno spesso su questo argomento. Il fatto è che guardo il mondo del vino, dell'informazione del vino - più o meno competente, più o meno becera al limite del volgare e dell'ingiuria - e non posso che restare perplesso di fronte ad accuse, spesso infondate e delle quali non si ha nessuna consapevolezza in materia, dette solo con lo scopo di “dire qualcosa tanto per recriminare la propria discutibile presenza”. Che noia! Uno spettacolo patetico, triste e inutile, dove si fa un gran parlare di tutto - alla fine di niente - di tutto tranne che di vino. Eppure sono tutti fermamente convinti di parlare di vino, forse confondendo la propria vanità, la presunta competenza, le religioni, la voglia di emergere dal nulla facendosi scudo di una posizione integralista - pertanto sciocca e cieca - urlando parole dette perché vanno dette con la vacua speranza di sentirsi “importanti”. Tutti convinti di emettere la sentenza definitiva e confidando che tutti siano pronti a berla come verità rivelata.


 

 Si fa un gran parlare di correnti di pensiero, di religioni enologiche, di disciplinari, di chi lo sa fare meglio - il vino, ovviamente - di chi ha avuto il dono dell'onniscienza enologica, chi è stato folgorato sulla via di Bacco, chi è pronto a giurare che il proprio vino è il migliore in assoluto, mentre quello degli altri è, nella migliore delle ipotesi, il male assoluto da combattere. Mi sforzo, cerco davvero di farlo, forte solamente delle mie possibilità - certamente ricche di limiti e ignoranza - ma proprio non ci riesco, non riesco a capire questo tanto rumore per nulla. Tutti che si affannano a mettere davanti al proprio vino - sia i produttori, sia gli sciocchi megafoni di turno - parole, supposizioni, congetture, presunte superiorità, tra l'altro, mai avvalorate da ragioni oggettivamente provabili, prima ancora di parlare dei propri vini, come se dovessero giustificare o nascondere qualcosa.

 Tutto questo mi fa venire in mente la saggezza di tempi passati, segno che, in fin dei conti, questi atteggiamenti hanno sempre fatto parte delle diatribe di ogni tempo: excusatio non petita, accusatio manifesta. La locuzione, è traducibile come scusa non richiesta, accusa manifesta, o più correntemente come se non si ha nulla per cui giustificarsi, non serve scusarsi. Certi produttori di vino, certi sostenitori strenui di una posizione - di qualunque corrente e di qualunque credo - mi sembrano spesso i bambini che, sorpresi con le mani nel vasetto della marmellata, dicono, con una certa “faccia tosta”, di non essere colpevoli. Per quale ragione, al momento di assaggiare un vino in presenza di un produttore, questo debba continuamente sostenere che si tratta di un vino fatto in un certo modo, che risponde a certi requisiti produttivi, appartenente a specifiche religioni enologiche, e come tali devono classificare il vino in un certo modo, prima ancora di metterlo nel calice e permettermi di assaggiarlo, negandomi il diritto di farmi un'idea, la mia idea maturata dall'ascolto di quel vino?

 L'ho sempre sostenuto e continuo a sostenerlo: non riconosco nessuna importanza o garanzia alle denominazioni - mentre riconosco importanza assoluta al territorio - ai certificati, alle religioni, alle posizioni ideologiche integraliste, alle mode “che vanno e vengono”, soprattutto quando sono ostentate in modo violento e volgare, con lo scopo di “nascondere altro”. È un insulto sia alla mia intelligenza sia alla mia capacità di degustatore di vino, qualità che riconosco, entrambe e senza paura, limitate in modo desolante. Non mi interessa - in alcun modo - che un vino sia naturale, biologico, biodinamico, convenzionale, tecnologico o di qualunque altra categoria, e tutto il gran parlare che si fa di questo “nulla”, solo per imporre la propria mediocrità sugli altri, mi rende tutto opaco e inutile. Tristemente inutile. Riusciremo mai a capire che la qualità non si impone per legge - fatta la legge, trovato l'inganno - e che la moralità e l'onestà sono qualità che non si impongono ma che sono intimamente parte delle persone e della loro etica? Un produttore onesto non ha bisogno di leggi o dogmi, e non li impone nemmeno agli altri a protezione di quello che fa: lascia unicamente al vino il compito di raccontare sé stesso e quello che fa.

 Atteggiamenti e schieramenti di parte che si traducono innegabilmente in nuove mode, spesso riesumate dal passato, quando - ai loro tempi - erano state apertamente osteggiate e rifiutate. Mode che ottengono un clamoroso successo e finiscono - spesso - per distogliere l'attenzione dal vino alimentando dibattiti e raccogliendo agguerriti proseliti. Posizioni che diventano ipocrite e assolutamente tristi, fino a sostenere a spada tratta un vino appartenente alla categoria “del cuore” anche quando è evidentemente di pessima qualità, ma che diviene capolavoro assoluto solo per il fatto di essere figlio della “verità rivelata” di turno. Non tollero, infatti, che si metta davanti alla qualità del vino la categoria di appartenenza e la tecnica di produzione - qualunque essa sia, senza distinzione alcuna - come se fosse un pregio o, peggio, la giustificazione a certi palesi difetti o eccessi. Allo stesso modo, riportare in auge stili di vino, di discutibile esecuzione enologica e in passato definiti di bassa qualità in modo pressoché unanime, vestendoli di nuovi nomi romantici all'insegna del “puro” e del “tradizionale”, del “salutare” e “sano”. Ed è perfino troppo ovvio che a chiunque interessi un vino salutare e una viticoltura rispettosa dell'ambiente ed ecosostenibile, senza eccezione da parte di alcuno, me compreso e in modo indiscutibile.

 Tutto questo mi fa davvero sorridere se ripenso a mio nonno, che ha sempre fatto vino bianco facendo fermentare il mosto insieme alle bucce - tutte le bucce - mantenendole dentro la botte fino alla svinatura. Il suo vino aveva un colore dorato intenso e un corpo piuttosto robusto per essere un vino bianco. Tutto quello che usava in vigna era zolfo e “verderame” - cioè cristalli di solfato di rame disciolti in acqua - e in cantina solo pastiglie di zolfo da bruciare nei contenitori vinari e travasi. Oggi, un vino bianco simile, prodotto da lunga macerazione con le bucce, sarebbe equiparato ai cosiddetti orange wine, e - per i prodotti usati - di diritto incluso nella categoria dei naturali, precisando che il vino di mio nonno non è mai stato né ossidato né torbido. Anzi, un vino torbido o ossidato lo indisponeva alquanto, definendo il produttore come incapace, oltre a usare “coloriti” aggettivi dialettali che, per limiti linguistici, non renderebbero giustizia al significato esatto qualora fossero tradotti in Italiano. Purtroppo, il tempo e il naturale corso della vita, non mi permette di chiedere a mio nonno la sua opinione sul fatto che il suo vino era in realtà un naturale orange wine. Chissà cosa penserebbe di una definizione come questa, lui che ha sempre chiamato il frutto della sua vigna semplicemente “vino”.

Antonello Biancalana






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