Il titolo di questo editoriale non riflette esattamente la mia opinione, o
quanto meno, non in modo assoluto e integralista: si tratta di una litanìa
che sento ripetere sempre più spesso. In Italia, ovviamente. Sono consapevole
che, per questo, risulterò a molti poco simpatico o forse anche
irriverente nei confronti della Patria nostra e dei suoi frutti. Sia chiaro:
adoro il grande patrimonio ampelografico d'Italia - qui, come in nessun altro
luogo del mondo la Natura è stata generosa nelle vigne - ma non per questo
ritengo di doverlo sostenere su tutto e contro tutto. Da sempre convinto che
se un vino è buono e fatto bene non mi preoccupo della sua origine o delle
sue uve, o almeno, non in modo cieco, poiché ritengo che ogni luogo del
mondo è capace di regalare grandezze assolute. In fin dei conti, la differenza
è una grande ricchezza: questo vale in ogni ambito - a partire da quello umano
- e, non da meno, quello che passa per il calice.
Non ho intenzione di alimentare l'infinita - e alquanto inutile - polemica su
chi o cosa sia migliore, ne tanto meno in fatto di uve autoctone o alloctone,
angeli le prime, demoni le seconde. Per me, autoctone e alloctone sono
semplicemente uve, piccoli scrigni di dolce nettare capaci di diventare vino
con il fondamentale contributo della Natura e dell'uomo. Non ci sono uve buone
o uve cattive: tutte sono parimenti capaci di produrre vino grazie a quello
straordinario interprete che consente loro la massima espressione: il
territorio e le sue piccole, ma grandi, qualità. Guardo con vera
tenerezza gli appassionati di vino, spesso esperti, che storcono il
naso quando sentono parlare di Merlot o Chardonnay. Avessero a disposizione un
crocefisso e l'acquasanta, non esiterebbero a trasformarsi in provetti
esorcisti al grido di vade retro, alloctono! Noi italiani - si sa - siamo
popolo di corta memoria, dimentichiamo troppo in fretta la nostra storia e,
soprattutto, il duro prezzo che certi avvenimenti hanno preteso come
pagamento.
Memoria così corta, tanto da dimenticare lo scenario enologico d'Italia di
soli venti anni fa, pertanto quello di un secolo fa è consegnato all'oblìo, in
quei tempi quando la fillossera stava spazzando via i vigneti del nostro Paese
e d'Europa. Di fronte alla desolazione di vigneti che scomparivano per sempre,
furono proprio le tanto odiate varietà alloctone a ridare la speranza enologica
in molti luoghi d'Italia. Se oggi può sembrare strano che in certe zone
d'Italia - nord-est in particolare - varietà come Merlot, Cabernet Sauvignon e
Chardonnay sono diffuse e radicate nel territorio, è bene sapere che la loro
presenza è figlia della necessità di quei tempi. Necessità che imponeva una
scelta: smettere di produrre vino oppure ricominciare da capo e accettare
quello che quei tempi offrivano. Va infatti ricordato che furono proprio i
francesi a capire che il flagello della fillossera si poteva combattere
sostituendo l'apparato radicale con quello di varietà americane. Le uve
francesi divennero quindi le prime capaci di resistere al temibile afide
conoscendo un'enorme diffusione.
Se questo può fare pensare, da parte mia, a un tentativo di rivalutazione
delle varietà alloctone in territorio italiano, non solo questo non
corrisponde alle mie intenzioni, ma sarebbe anche inutile e certamente non
necessario. Mi infastidisce chi dimentica la storia, o fa finta di non
ricordare, solo per una semplice speculazione o per malafede. La storia è
importante e i fatti, per comprenderli fino in fondo, si devono conoscere, a
partire dal passato: la loro manipolazione è il segno di malafede e
deplorevole immoralità. Se oggi tutti si affannano a magnificare le uve
autoctone - non nascondiamolo, anche per un fatto di comodo e di moda - è bene
ricordare poco più di dieci anni fa la tendenza era del tutto contraria a
questa. Vigneti riccamente decorati con le celebri uve alloctone - che molti
definivano addirittura migliorative - e parlare delle uve del
territorio, quelle che da sempre abitavano i vigneti, era per molti
considerato ridicolo e controproducente. Non solo: le varietà autoctone erano
estirpate dai vigneti per fare posto a quelle alloctone, rinnegando, senza
difficoltà o rimorso, uve e vini del proprio territorio.
Quando ascolto certi proclami da guerra santa enologica, che
inneggiano al rifiuto dell'enoico straniero invasore, mi viene sempre in mente
la stessa cosa. Cosa pensano i francesi dei loro alloctoni Merlot, Cabernet
Sauvignon, Chardonnay e Sauvignon Blanc, tanto per citare le varietà più
celebri? Chissà se anche loro li considerano così detestabili, proprio in
Francia dove queste varietà, innegabilmente, sono autoctone di quelle terre?
Sì, lo so, questa è una provocazione, ma serve per ricordare che non esiste il
migliore o il peggiore, il buono o il cattivo. Tutto è relativo e in funzione
dell'uso o abuso che se ne fa. Deploro, quindi, la nuova vita e il rifiorire
delle varietà autoctone italiane? Non ci penso nemmeno, visto che sono
infiniti i vini fatti con le nostre meravigliose uve capaci di regalarmi
soddisfazioni ed emozioni. Penso lo stesso anche di tutte le altre uve: se un
vino è buono e fatto bene, non mi barrico dietro muri ideologici o religioni
integraliste.
Questo perché riconosco al vino un valore culturale patrimonio dell'umanità,
fatta di piccole, piccolissime espressioni locali grandi quanto una vigna, e
ognuna di queste ha pari dignità. Così come riconosco enorme dignità a chi
crede nella sua terra e si fa interprete delle sue vigne, di varietà alloctone
o autoctone che siano, perché il rispetto è il primo e fondamentale atto,
anche quando non si condivide qualcosa. La discriminazione un atto sciocco e
odioso: questo vale per le persone tanto quanto per le uve, soprattutto quando
un inutile pregiudizio non mi lascia la mente libera e aperta per ascoltare e
dare l'opportunità di raccontare. La differenza è ricchezza, sempre: vale
anche per i vini, per le uve, produttori, territori, vigne e nazioni. Per
questo motivo si dovrebbero salvaguardare le peculiarità di ogni territorio,
uve comprese. Farne una guerra ideologica è sbagliato: rende la mente piccola
e chiusa, evita il confronto, indispensabile e utile criterio per il progresso
e il miglioramento. Il migliore non esiste. L'uva migliore non esiste. Esiste
il vino: facciamo in modo che sia buono e capace di raccontare un luogo e la
passione di chi lo fa, nell'espressione di un territorio e delle sue
irripetibili ricchezze. Uve comprese.
Antonello Biancalana
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