Prendo in prestito la battuta finale dell'omonimo film, nel quale il grande
Fernand Contandin - in arte Fernandel - richiama sé stesso al dovere, per poi
inseguire l'altrettanto grande Antonio de' Curtis, in arte Totò. Nonostante
fosse proprio l'amico-nemico Totò ad averlo aiutato nel risolvere la
spiacevole vicenda che lo vedeva coinvolto, Fernandel - dopo avere a lungo
esitato - si ricordò di essere doganiere e che doveva agire da uomo di
legge. La legge è legge. Come ben si sa, questa non fa eccezioni. Tuttavia,
in diversi casi, di eccezioni se ne sollevano spesso e, a volte, sono proprio
queste a rendere la legge ottusa. Nel mondo del vino, poi, nel tentativo
di tutelare e regolamentare la produzione e la tipicità, si producono spesso
dei risultati grotteschi, rendendo difficile la vita dei produttori onesti che
- di certo - non hanno bisogno di leggi per esserlo.
Intendiamoci: le leggi sono utili e necessarie, un segno di civiltà poiché, in
una società organizzata e civile, è fondamentale l'esistenza di regole comuni -
scritte o semplicemente morali - tali da tutelare le persone oneste da quelle
che non lo sono. Evitando di entrare nel merito dell'applicabilità di questa
elementare, quanto civile, condizione sociale, è comunque innegabile che, certe
leggi, nel tentativo di regolamentare un certo ambito, tendano a esasperare
l'applicazione. Segno che, talvolta, chi approva ed emana le leggi, non sempre
sembra essere competente in materia o, quanto meno, conoscere la materia che
cerca di regolamentare e la sua applicazione. Questo, e lo dico con rammarico,
accade molto spesso nelle leggi che regolamentano il mondo dell'agricoltura, e
quindi del vino, dando l'idea di una scarsa conoscenza o insufficiente studio
della materia. Oppure, più banalmente, sono probabilmente mosse da oscuri
motivi corporativi, con buona pace dei più piccoli e deboli.
Il caso più recente è quello del Testo Unico della Vite e del Vino, che
entrerà in vigore il primo gennaio 2015 e recepisce una norma del
Regolamento Europeo 1308/2014. Elemento della discordia è il Titolo Terzo
dell'Articolo 53, per il quale la FIVI (Federazione Italiana Vignaioli
Indipendenti) ha annunciato azioni di disobbedienza civile nel caso non si
provveda a modificarlo. Nel Testo Unico della Vite si prevede il divieto di
usare in etichetta - e anche nei materiali promozionali, come brochure - nomi
riconducibili a denominazioni legalmente riconosciute. L'unica eccezione è
prevista nel caso in cui la località dove si trova la cantina abbia lo stesso
nome di una denominazione. In questo caso specifico, può essere indicata in
etichetta, a patto che il carattere usato per la stampa non superi i tre
millimetri di altezza. La norma, per chiarezza, tende a tutelare le
denominazioni da eventuali speculazioni e, fino qui, niente da obiettare.
Com'è stato fatto giustamente notare dalla FIVI - per mezzo del loro presidente
Matilde Poggi - «allo stato attuale, un'azienda non può indicare nei propri
materiali di comunicazione la regione dove ha sede». Carlo Petrini - fondatore
dell'associazione Slow Food - ha giustamente evidenziato le non proprio
irrilevanti conseguenze che l'applicazione di questa norma porterebbe in
diverse realtà vitivinicole. L'esempio usato da Carlo Petrini è piuttosto
emblematico. Un produttore che si trova a Barolo, ma non produce l'omonimo
vino, dedicandosi invece alla Barbera d'Alba, può scrivere Barolo in
etichetta, a patto che il carattere non sia più alto di tre millimetri. La
legge però vieta a quel produttore di comunicare che la sua cantina si trova
nelle Langhe e, ancor peggio, in Piemonte, visto che queste corrispondono a due
specifiche denominazioni. Se un consumatore non sa dove si trova
geograficamente Barolo, dovrà informarsi da solo, accusando, magari, di
superficialità quel produttore.
Carlo Petrini - con squisita e intelligente ironia - suggerisce a quei
produttori il modo con il quale dovrebbero comunicare correttamente quel loro
vino. «Per star tranquillo, su internet ci si deve limitare a scrivere che la
propria vigna è a Barolo, in un territorio tra il Mar Ligure e la Svizzera:
perché anche la Valle d'Aosta è una DOC e guai a usurparne il nome». Sembra una
burla, invece no. La norma, nelle intenzioni del legislatore, vorrebbe
diminuire la possibilità di confusione nei consumatori, a causa di indicazioni
che potrebbero ricondurre a denominazioni legalmente riconosciute. A quanto
pare, le denominazioni hanno maggiore dignità rispetto all'origine reale ed
effettiva di un produttore e delle sue uve, senza considerare che - nel suo
caso - gli si procura evidentemente un danno. Inoltre, lo si priva del diritto
- e dovere - di raccontare il suo territorio e la sua terra solo per il fatto
di trovarsi nel posto sbagliato e, di certo, non per sua scelta o colpa.
È assurdo, per quel che mi riguarda, che qualcuno - produttore o semplice
cittadino - sia privato legalmente del diritto di potere reclamare la sua
appartenenza a un territorio o regione solo perché il luogo è riservato a
titolo esclusivo a una denominazione enologica. Ribadendo la mia personale
obiezione sulla qualità delle denominazioni, in particolare, pretendere che
questa si possa ottenere con la legge, comprendo che - in ogni caso - vanno
tutelate da speculazioni e frodi. Non credo, tuttavia, che indicare il nome di
una regione e di un territorio - quando si è nella legittima condizione di
farlo per appartenenza geografica - sia motivo di confusione per i consumatori.
Anzi, trovo che sia un'informazione utile per meglio comprendere il produttore
e perfino per fare capire che non tutto quello che è all'interno di una
denominazione è necessariamente espressione legale di quel territorio. A
volte, l'estro e la fantasia sanno creare cose nuove e, spesso, anche migliori
di ciò che è imposto. In fin dei conti, le denominazioni sono già riconoscibili
dalle relative sigle ed esplicazioni. Non si tratta di incitamento eversivo:
semplicemente lasciare la libertà di interpretare un territorio nel modo che il
produttore sente e percepisce. Compreso il diritto di comunicarlo, proprio a
tutela dei consumatori e della chiarezza.
Antonello Biancalana
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