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  Editoriale Numero 136, Gennaio 2015   
La Legge è LeggeLa Legge è Legge  Sommario 
Numero 135, Dicembre 2014 Segui DiWineTaste su Segui DiWineTaste su TwitterNumero 137, Febbraio 2015

La Legge è Legge


 Prendo in prestito la battuta finale dell'omonimo film, nel quale il grande Fernand Contandin - in arte Fernandel - richiama sé stesso al dovere, per poi inseguire l'altrettanto grande Antonio de' Curtis, in arte Totò. Nonostante fosse proprio “l'amico-nemico” Totò ad averlo aiutato nel risolvere la spiacevole vicenda che lo vedeva coinvolto, Fernandel - dopo avere a lungo esitato - si ricordò di essere doganiere e che doveva agire da “uomo di legge”. La legge è legge. Come ben si sa, questa non fa eccezioni. Tuttavia, in diversi casi, di eccezioni se ne sollevano spesso e, a volte, sono proprio queste a rendere la legge ottusa. Nel mondo del vino, poi, nel tentativo di tutelare e regolamentare la produzione e la tipicità, si producono spesso dei risultati grotteschi, rendendo difficile la vita dei produttori onesti che - di certo - non hanno bisogno di leggi per esserlo.


 

 Intendiamoci: le leggi sono utili e necessarie, un segno di civiltà poiché, in una società organizzata e civile, è fondamentale l'esistenza di regole comuni - scritte o semplicemente morali - tali da tutelare le persone oneste da quelle che non lo sono. Evitando di entrare nel merito dell'applicabilità di questa elementare, quanto civile, condizione sociale, è comunque innegabile che, certe leggi, nel tentativo di regolamentare un certo ambito, tendano a esasperare l'applicazione. Segno che, talvolta, chi approva ed emana le leggi, non sempre sembra essere competente in materia o, quanto meno, conoscere la materia che cerca di regolamentare e la sua applicazione. Questo, e lo dico con rammarico, accade molto spesso nelle leggi che regolamentano il mondo dell'agricoltura, e quindi del vino, dando l'idea di una scarsa conoscenza o insufficiente studio della materia. Oppure, più banalmente, sono probabilmente mosse da oscuri motivi corporativi, con buona pace dei più piccoli e deboli.

 Il caso più recente è quello del Testo Unico della Vite e del Vino, che entrerà in vigore il primo gennaio 2015 e recepisce una norma del Regolamento Europeo 1308/2014. Elemento della discordia è il Titolo Terzo dell'Articolo 53, per il quale la FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti) ha annunciato azioni di disobbedienza civile nel caso non si provveda a modificarlo. Nel Testo Unico della Vite si prevede il divieto di usare in etichetta - e anche nei materiali promozionali, come brochure - nomi riconducibili a denominazioni legalmente riconosciute. L'unica eccezione è prevista nel caso in cui la località dove si trova la cantina abbia lo stesso nome di una denominazione. In questo caso specifico, può essere indicata in etichetta, a patto che il carattere usato per la stampa non superi i tre millimetri di altezza. La norma, per chiarezza, tende a tutelare le denominazioni da eventuali speculazioni e, fino qui, niente da obiettare.

 Com'è stato fatto giustamente notare dalla FIVI - per mezzo del loro presidente Matilde Poggi - «allo stato attuale, un'azienda non può indicare nei propri materiali di comunicazione la regione dove ha sede». Carlo Petrini - fondatore dell'associazione Slow Food - ha giustamente evidenziato le non proprio irrilevanti conseguenze che l'applicazione di questa norma porterebbe in diverse realtà vitivinicole. L'esempio usato da Carlo Petrini è piuttosto emblematico. Un produttore che si trova a Barolo, ma non produce l'omonimo vino, dedicandosi invece alla Barbera d'Alba, può scrivere “Barolo” in etichetta, a patto che il carattere non sia più alto di tre millimetri. La legge però vieta a quel produttore di comunicare che la sua cantina si trova nelle Langhe e, ancor peggio, in Piemonte, visto che queste corrispondono a due specifiche denominazioni. Se un consumatore non sa dove si trova geograficamente Barolo, dovrà informarsi da solo, accusando, magari, di superficialità quel produttore.

 Carlo Petrini - con squisita e intelligente ironia - suggerisce a quei produttori il modo con il quale dovrebbero comunicare correttamente quel loro vino. «Per star tranquillo, su internet ci si deve limitare a scrivere che la propria vigna è a Barolo, in un territorio tra il Mar Ligure e la Svizzera: perché anche la Valle d'Aosta è una DOC e guai a usurparne il nome». Sembra una burla, invece no. La norma, nelle intenzioni del legislatore, vorrebbe diminuire la possibilità di confusione nei consumatori, a causa di indicazioni che potrebbero ricondurre a denominazioni legalmente riconosciute. A quanto pare, le denominazioni hanno maggiore dignità rispetto all'origine reale ed effettiva di un produttore e delle sue uve, senza considerare che - nel suo caso - gli si procura evidentemente un danno. Inoltre, lo si priva del diritto - e dovere - di raccontare il suo territorio e la sua terra solo per il fatto di trovarsi nel posto sbagliato e, di certo, non per sua scelta o colpa.

 È assurdo, per quel che mi riguarda, che qualcuno - produttore o semplice cittadino - sia privato legalmente del diritto di potere reclamare la sua appartenenza a un territorio o regione solo perché il luogo è “riservato” a titolo esclusivo a una denominazione enologica. Ribadendo la mia personale obiezione sulla qualità delle denominazioni, in particolare, pretendere che questa si possa ottenere con la legge, comprendo che - in ogni caso - vanno tutelate da speculazioni e frodi. Non credo, tuttavia, che indicare il nome di una regione e di un territorio - quando si è nella legittima condizione di farlo per appartenenza geografica - sia motivo di confusione per i consumatori. Anzi, trovo che sia un'informazione utile per meglio comprendere il produttore e perfino per fare capire che non tutto quello che è all'interno di una denominazione è necessariamente espressione legale di quel territorio. A volte, l'estro e la fantasia sanno creare cose nuove e, spesso, anche migliori di ciò che è imposto. In fin dei conti, le denominazioni sono già riconoscibili dalle relative sigle ed esplicazioni. Non si tratta di incitamento eversivo: semplicemente lasciare la libertà di interpretare un territorio nel modo che il produttore sente e percepisce. Compreso il diritto di comunicarlo, proprio a tutela dei consumatori e della chiarezza.

Antonello Biancalana






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