Milano, quartiere Isola, una sera insolitamente afosa per essere l'inizio di
giugno. A pochi metri, attraversando una via, si trova Piazzale Carlo Archinto,
li dove nacque il grande Luigi Veronelli - la sua famiglia aveva una casa
proprio in quella piazza - e qui trascorse la prima parte della sua vita.
Il quartiere Isola è probabilmente fra i più caratteristici della capitale
meneghina, dove, forse, si può trovare ancora oggi una certa identità
milanese, di quello che rimane di una Milano che non c'è più e che, oggi, ha
preferito barattare con una frivola e freneticamente vuota apparenza. Il
quartiere Isola, nelle sue diritte vie, è ricco di ristoranti e locali dove
trascorrere piacevoli momenti, placidamente seduti a un tavolo: l'offerta è
tale da accontentare praticamente tutti. Proprio quella serata afosa di giugno
sembra offrire l'occasione adatta per andare a conoscere un ristorante di
questo quartiere, segnato da tempo nella lista dei luoghi da provare.
Il ristorante offre anche la possibilità di cenare all'aperto, in un gazebo
installato nella via adiacente. Peccato essere arrivati tardi: ci si deve
accontentare di cenare nella sala interna, in un tavolo vicino a una finestra
che si affaccia sulla stessa strada, confidando possa regalare un po' di
sollievo al caldo afoso. Il tavolo è seguito da un cameriere che, da quel
che si può intuire, ricopre anche il ruolo di maître di sala e sommelier,
all'apparenza gentile e premuroso, due qualità che sono sempre gradite e
apprezzate. Tutto sembra andare bene - nel limite di quello che il locale è
capace di potere offrire - di certo non mi aspetto l'esperienza culinaria e
gastronomica più significativa della mia vita. Anzi, direi proprio molto meno,
viste le apparenze, mi aspetto un servizio e una qualità da ristorazione media.
In fin dei conti, l'arredamento e l'allestimento del coperto, l'organizzazione
del servizio e dell'accoglienza, non mi fanno immaginare qualcosa di diverso. E
va bene così.
Come sempre, mi concentro sulla carta dei vini poiché, spesso, ordino le
pietanze in funzione del vino che ho piacere di bere. Non è una mia regola
fissa, ma ammetto che è quello che faccio più spesso, dipendentemente dal
ristorante e da quello che offrono nel menu e nella carta dei vini. In una
sera afosa come quella, immagino il sollievo di un buon calice di vino bianco e
mi pare l'occasione giusta per un Fiano di Avellino. La carta, in verità, ne
propone solamente uno, quindi non ho alternative. Si tratta di un vino
solitamente venduto in enoteca a un prezzo medio di dieci euro, qui viene
servito al tavolo per venticinque. Un ricarico decisamente elevato per un vino
che il ristoratore acquista per circa cinque euro: è evidente che si tratta
della solita abitudine di certi ristoratori convinti che il vino sia
principalmente speculazione e alto profitto. È pur vero che, sapendo quanto
costa all'origine - conosco personalmente il produttore - a quanto si vende in
enoteca, resta nella mia discrezione ordinarlo oppure no. Il prezzo è
chiaramente riportato nella carta, tuttavia senza indicare l'annata, cosa che
considero sempre un grave difetto.
Ammetto questi margini e ricarichi mi fanno sempre pensare al solito
ristoratore furbetto, a quelli che pensano che i clienti siano in genere
poco accorti e si possono imbrogliare e ingannare a loro piacimento. Per
questi ristoratori intelligenti, il vino rappresenta un prodotto dal quale
ottenere margini elevati, per poi magari lamentarsi delle scarse vendite
e delle enormi giacenze in cantina. Non capiscono proprio che un vino venduto a
prezzi onesti gli consente di vendere anche due bottiglie allo stesso tavolo e,
stappando la seconda bottiglia, si vendono anche altre pietanze. Il vino che ho
ordinato arriva al tavolo, servito da questo maître, il quale, dopo
averlo stappato, si gira di spalle e annusa il tappo. Con un sorriso, prende la
bottiglia e versa per il preliminare assaggio. Annuso il vino e - ahimè - sa
inequivocabilmente di tappo. Può succedere, ci mancherebbe, anche se mi chiedo
cos'abbia annusato il maître quando si è voltato di spalle.
«Perdoni, ma sa di tappo», gli dico. «Dice?», lui di rimando. «Dico!», insisto.
Il maître prende il tappo dalla sua tasca, ancora avvitato nel verme del
cavatappi, e lo rimuove con le nude mani. Non l'avrebbe fatta comunque
franca: quando ordino un vino al ristorante, pretendo che il tappo sia sempre
lasciato al mio tavolo, pertanto glielo avrei chiesto in ogni caso. Dalle sue
mani, mi passa velocemente il tappo sotto il naso, convinto che, così facendo,
sarebbe stato piuttosto improbabile sentire alcun odore. «Guardi» - gli dico
- «è fin troppo evidente che il tappo è contaminato da TCA». Chissà se sa
cos'è, penso. «Sicuramente è l'odore della barrique», mi dice trionfante. «Be'»
- gli rispondo - «sarebbe piuttosto bizzarro, visto che questo vino è fatto in
vasca d'acciaio. Non crede?». Noto nel suo viso un'espressione sorpresa e
seccata, poi mi dice che avrebbe cambiato la bottiglia, e ci mancherebbe.
Aggiunge, in modo supponente e saccente, che è un esperto e che - oltre a
lavorare in quel ristorante - è un distributore di vini, due cose che,
personalmente, considero come aggravanti.
Porta via la bottiglia e il calice e, poco dopo, torna con un'altra. Stesso
cerimoniale, stappa, si gira e annusa il tappo. Si ripete la stessa scena:
svita il tappo dal cavatappi con le nude mani e me lo passa velocemente sotto
il naso. «Scusi, permette?», gli dico prendendogli il tappo dalle mani con il
mio tovagliolo. Questa volta il tappo non ha difetti, il maître serve il
vino e mi illudo che la cosa sia finita li. La cucina non è niente di
particolare, senza nulla di eccelso da segnalare, come tante se ne trovano. La
sorpresa arriva con il conto. Il vino è riportato una sola volta - 25 euro -
tuttavia una portata, ordinata una sola volta e dal prezzo di 10, è riportata
due volte. In altre parole, la bottiglia che aveva il difetto di tappo e che il
ristoratore ha pagato circa 5 euro, è stata fatta pagare con una portata
aggiuntiva e che costa il doppio. Non solo intendeva recuperare il costo della
bottiglia difettosa, ma pretendeva pure di guadagnarci qualche euro. Caro
ristoratore furbetto e caro maître esperto e venditore di vini,
oltre ad avere fatto una misera e ignobile figura, di certo nel vostro locale
non metterò mai più piede e, state certi, di pessima pubblicità ve ne farò
tanta. E tanta ve ne ho già fatta. Chi la fa, l'aspetti: anch'io - a modo mio -
a volte faccio il furbetto.
Antonello Biancalana
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